Un mese di autori maschi, tanto per cambiare. Che non mi si accusi di sessismo letterario, non sia mai.
Il libro di Fulvio Colucci, La zattera (Il Grillo Editore) raccoglie sei storie struggenti di lavoratori dei call center che non vogliono rinunciare alla propria umanità. Cinque voci di donna, una maschile, in comune il bisogno di un lavoro, mal pagato, precario e alienante ma necessario a sopravvivere, l’unico che in qualche modo si riesce a trovare e che diventa una zattera cui aggrapparsi. Per sopravvivere, appunto. Persone (non personaggi, non dimentichiamolo, sono storie vere) indimenticabili: la ragazza arrivata dall’Albania, i due sposi che s’incontrano all’alba, lui torna dal turno di notte in acciaieria quando lei si appresta ad andare al call center, il ragazzo con la voce e i sogni del cantante lirico, la giovane lucana con la sua laurea e i suoi progetti in tasca.
Domenico Starnone, con Lacci (Einaudi), racconta una storia di ordinario e terribile malessere familiare. L’odio, il rancore e la rabbia – nascosti sotto la superficie composta di una famiglia borghese che ha affrontato e apparentemente superato le sue crisi e curato le sue ferite – possono esplodere in un olocausto più divertente che drammatico. Sentimenti negativi, delusioni che pesano e però costituiscono lacci, legami, nodi che avvincono quanto e più dell’amore. I quattro protagonisti di questa vicenda familiare che attraversa i decenni (Aldo, Vanda, i loro figli Sandro e Anna) parlano a turno, fornendo ciascuno la sua lettura dei fatti e l’espressione – rabbiosa in alcuni casi, malinconica in altri – dei sentimenti suscitati dalla crisi coniugale, ricomposta dopo anni, che ha portato Aldo lontano da casa e ha spento in Vanda ogni luce.
Non è vero (Piemme Edizioni) di Aldo Costa è un romanzo interessantissimo che evito di inquadrare in un genere preciso (thriller, per esempio) perché mi sembra riduttivo. Scrittura pulitissima, ritmo pacato, senza impennate da cinema americano, il giusto grado di introspezione. I protagonisti sono Lorenzo Cremona, insegnante, acccusato di molestie sessuali nei confronti di un’allieva; il sostituto procuratore Serena Ainardi che conduce le indagini sul caso; il maresciallo Tasca, stretto collaboratore della Ainardi. Vale la pena di scoprire senza anticipazioni come le vicende dei tre personaggi principali si intrecciano, fino allo scioglimento finale di tutti i nodi irrisolti.
Brian Morton, con Florence Gordon (edito in Italia da Sonzogno), dipinge il ritratto di una vecchia signora ebrea newyorchese, un’intrepida scrittrice di settantacinque anni che vive a Manhattan. Mentre sta cercando di scrivere un libro di memorie (cose da raccontare ne ha tante, come portavoce di una generazione che ha vissuto – tra l’altro – il femminismo e la rivoluzione sessuale), Florence viene improvvisamente investita dal successo letterario grazie alla recensione entusiastica di un’intellettuale tuttologa molto accreditata. Ironica e scostante, carismatica e tutt’altro che pacificata, Florence affascina tutti coloro che le stanno intorno, nonostante faccia ben poco per ingraziarsi il prossimo. La amiche, il figlio, la nuora, perfino l’ex marito, e infine Emily, l’unica nipote, nutrono per lei una sorta di reverente ammirazione pur considerandola una donna di pessimo carattere, quale in effetti Florence è e sa (si compiace?) di essere. Le vicende dei suoi familiari – venuti da Seattle a New York per varie ragioni – si sovrappongono al suo momento di gloria. L’inarrestabile avanzare della vecchiaia e un dialogo che tra mille difficoltà si avvia tra Florence e la nipote non riusciranno a cambiarla. Nessuna redenzione, nessuna consolazione. Florence resta se stessa, nel bene e nel male, anche quando la sua forza comincia ad abbandonarla. Considerare questa resistenza una vittoria o una sconfitta dipende dal modo in cui ciascuno di noi vede la vita.
Rosalia Messina