Ottavia, giovanissima, bella, inesperta e anche ingenua va a Roma, capitale del cinema e qui si perde da vera provincialotta. Sono gli anni cinquanta di De Sica e Rossellini, di Visconti e Fellini ma anche e oserei dire soprattutto di meschini avvoltoi ricchi di cambiali, soldi sprecati senza cognizione e di isteriche attricette per nulla promettenti. Ottavia scrive al suo Filippo, il fidanzato rimasto nella piccola città di provincia, con la sincerità tipica di chi non nasce intelligente o almeno furbo, l’ingenuità di chi nasce per soccombere in una società fatta di brutture.
Undici lettere che Luigi Malerba ha inventato e scritto con l’acutezza e vivacità che ne ha contraddistinto l’intero paradigma letterario. Pubblicate su <<Cinema Nuovo>> di Guido Aristarco dal 15 febbraio 1956 (n. 77) con cadenza saltuaria fino al 1° dicembre del 1956 (n. 95), edite poi da Archinto Editore nel 2004.
Piacevole racconto a puntate di chi quel mondo lo conosceva bene perché non si può dimenticare che Luigi Melerba è stato un fine sceneggiatore nell’attraente macchina di sogni del cinema di quegli anni. Gli anni d’oro del cinema italiano.
«Se una non è capace di farsi un po’ di pubblicità è fregata in partenza» scrive Ottavia, da aspirante attrice e non si può darle torto. Il cinema a Roma fa perdere la testa a molti e l’«innocente» Ottavia si fa imbrogliare da un sedicente produttore, Fabio, a cui presta cinquantamila lire per un film miliardario, con ovvia promessa di parti sorprendenti e straordinarie, parti che tutti sanno non avrà mai perché Ottavia non sa fare nulla, come molte aspiranti attrici, assetate di fama e di gloria e Malerba diverte il lettore facendole recitare la parte della svampita e sciocca.
«Nel pomeriggio ho comprato un paio di slip pantera e sono andata come niente fosse a fare un tuffo nella Fontana di Trevi. Dovevi vedere quanta gente si era ammucchiata e quelli che mi facevano le fotografie. Peccato perché Fabio mi aveva promesso di portare i giornalisti e io non ho fatto in tempo a vederli perché sono andata via con due carabinieri»
Il bagno di Ottavia precede di poco quello, diventato celeberrimo, della “Dolce vita” ed è plausibile che Fellini si sia ricordato di Ottavia e delle sue lettere. Il romanzo presenta una sorta di saggio introduttivo, C’era una volta il cinema italiano, in cui Malerba realizza un quadro dell’irriverente situazione cinematografica italiana degli anni Cinquanta: “C’era una volta il cinema italiano, ricordate? Il più grande spettacolo del mondo da Cabiria a Quo vadis? a Scipione l’Africano, dive mute e luminose come lampade liberty, gloriose sigle come la Cines, la Scalera, la Titanus e finalmente Cinecittà, il più grande teatro di posa d’Europa. I “telefoni bianchi” del periodo fascista e il dopoguerra esplosivo con la cronaca geniale di Rossellini, l’elegia di De Sica, il melodramma di Visconti, il magistero di Zavattini e poi la seconda generazione dove primeggiano le invenzioni stregonesche di Fellini e la gelida maestria di Antonioni. […..] Di quali colpe si è macchiato il nostro cinema per scatenare negli uomini che hanno governato l’Italia una ostilità così determinata e perversa? Pare che un tremendo odore di zolfo offendesse le narici dei padroni d’Italia per ogni nuovo film italiano che appariva sugli schermi”.
Un romanzo molto contemporaneo che lettera dopo lettera racconta la parabola discendente di una donna, emblema di chi non ha mezzi e strumenti per comprendere il limite sottile tra la possibilità di una passione e la perdita della dignità per realizzare la stessa.