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Dicono che domani ci sarà la guerra, di Franco Arba: un’intervista

Parliamo oggi con Franco Arba, autore del libro “Dicono che domani ci sarà la guerra“, edito da Liberaria.

– Descrivici in due righe il tuo libro: perché è importante leggerlo? Credi che in un anno come questo, che ricorda l’entrata in guerra dell’Italia, sia fondamentale soffermarsi su alcune tematiche in particolare?

La mia maestra alle elementari riuscì a instillare in me il seme del valore della Storia. Ho saputo dei nuraghi, delle domus de janas, dei Giudicati come regni indipendenti della mia terra, grazie a quella meravigliosa insegnante. Con gli anni ho potuto constatare che conoscere la Storia del proprio paese, della propria gente – anche se questa gente è il mondo intero – è un grande insegnamento per capire il presente in cui si vive. Gli anniversari a 0 cifre, come questo 100° della Grande Guerra o il 70° dalla liberazione dai nazifascisti, servono soprattutto per scuotere i più distratti o i profani da educare. Ma oltre gli anniversari è necessario capire che la Storia è sempre una grande maestra: è che spesso siamo noi cattivi alunni.

Non voglio avere la prosopopea di sottolineare l’importanza del mio romanzo. Vorrei invece che il libro posso essere piacevole alla lettura. Anche perché è sì un romanzo storico di guerra, quella che Enrico combatte nelle trincee del 15-18 e dopo con l’avvento del fascismo a cui cerca di opporsi; ma è anche una storia di due amori, per Paska e per la Sardegna; è storia di amicizia che lega Enrico a Simone, a Salvatore e a Lorenzo.

– Hai scritto Dicono che domani ci sarà la guerra pensando a un pubblico specifico? Trovo che la descrizione della guerra e della violenza non sia troppo cruda; forse ti rivolgi soprattutto a un pubblico giovane?

Ho cercato soprattutto di suscitare emozioni. E le emozioni non hanno né età né genere né nazionalità. Sono universali. Anche la violenza può smuovere: le descrizioni delle scene di guerra sono alleggerite dalla tentazione dello splatter perché ho cercato di focalizzare l’atmosfera più romantica e politica del conflitto. Viceversa, ho calcato la mano nelle pagine della faida di Salvatore Cugurra per descrivere la crudeltà della legge del taglione. L’occhio per occhio porta sempre e solo alla cecità perenne: quella dell’anima

– Se dovessi dire qual è il vero amore di Enrico, il giovane protagonista del libro, diresti Paska, la sua donna, o i suoi ideali antifascisti? Sei d’accordo con la scelta del tuo personaggio, anche tu ti saresti comportato nello stesso modo, “abbandonando” la famiglia pur di combattere per ciò in cui credi?

So di essere stato crudele nel porre Enrico di fronte a una scelta che ha dovuto passivamente subire. Ma è la vita che spesso ti mette di fronte a scelte drastiche. Io spero di non dover mai dover decidere tra la mia famiglia e miei ideali, anche perché ho la fortuna di avere accanto una donna che condivide i miei stessi valori.

– Come mai hai scelto di parlare proprio della Grande Guerra? Hai utilizzato testimonianze della tua famiglia?

Dal 1915 alla fine della guerra su circa 800.000 abitanti della Sardegna ben 100.000 furono chiamati alle armi: quasi tutta la popolazione maschile abile alle armi. È stato un conflitto spartiacque nella mentalità dei sardi che per la prima volta, forzatamente, sono usciti dal loro microcosmo del villaggio d’origine e sono stati proiettati in un conflitto così lontano dalla loro realtà quotidiana. In trincea, migliaia di uomini per la prima volta hanno imparato ad imbracciare un fucile e a uccidere.

Ogni paese della Sardegna, ogni famiglia – anche la mia – ha avuto i suoi caduti e i suoi reduci di quel conflitto. Oltre ai racconti dei parenti e del paese, l’ispirazione si è arricchita dalla saggistica sul tema e dall’innumerevoli testimonianze reperibili sul web.

Ha senso oggi parlare ancora di ideali e di patria? Credi che la guerra sia necessaria a volte, come più volte in questi giorni si sente ripetere riguardo a un possibile conflitto contro l’Isis?

A mio parere non esiste una piccola patria e una grande patria, come i fondatori del Partito Sardo d’Azione – di cui si parla nel mio libro – rimarcavano quando venivano accusati di voler separare la Sardegna dall’Italia. Esiste un’unica patria, un’unica nazione di appartenenza, né piccola né grande. Il sentimento di appartenenza è già un ideale e quindi, sì, ha ancora senso parlare di ideali.

La guerra è necessaria solo per chi ci si arricchisce. Dai fabbricanti di armi, ai politici che devono il loro potere ai continui incitamenti all’odio, alle imprese che speculano sulle ricostruzioni post conflitti. La Storia ci svelerà, forse, cosa e chi c’è dietro all’Isis. Ora è tutto molto confuso nella sua chiarezza mediatica. Ma se penso alla resistenza di Kobane mi contraddico e credo che la popolazione curda non avesse altra scelta che imbracciare un’arma.

– Infine, cosa puoi dirci del mercato editoriale? Questo è stato il tuo debutto, cosa pensi del mercato del libro in Italia? Hai ricevuto più soddisfazioni o delusioni?

È ancora presto per me per parlare di soddisfazioni o delusioni. So che l’italiano medio legge poco e sempre meno e quindi scrivere o fare editoria può essere una scelta suicida. La letteratura dovrebbe essere soprattutto intrattenimento, dare ossigeno all’anima dopo le intossicazioni del vivere quotidiano. Ma per tanti l’intrattenimento è un’altra forma di intossicazione, quella che sprigionano le centinaia di canali tv di fronte alle quali piace arrenderci.

Non so se per superare la crisi dell’editoria potranno servire le fusioni dei grandi gruppi. Forse è solo questione di qualità del prodotto da immettere nel mercato.