Maggio frenetico. Ma anche aprile lo è stato. Però si dorme ancora meno e allora grandi letture, anche in maggio, di libri di ogni tipo. Mi concentro, in questi appunti, sul libro più insolito e stimolante che io abbia letto in questo periodo, il romanzo di Francesco Costa appena pubblicato, Orrore Vesuviano.
Orrore Vesuviano è un nome geniale, per un paese che del suo vero nome ha smarrito la memoria. In questo collettivo oblio scorgo la prima delle metafore di cui Francesco Costa ha intessuto il suo recentissimo romanzo, intitolato appunto Orrore vesuviano, edito da Bompiani. Si tratta di una favola gotico – partenopea, ambientata in un luogo in cui ciascuno potrà riconoscere realtà tristemente note (non solo meridionali) di degrado innanzitutto morale. La realtà, però, nel romanzo di Francesco Costa si trasfigura e assume un sapore fiabesco: i personaggi negativi assomigliano a streghe e orchi e il soprannaturale, il magico, sono pane quotidiano. La stessa collocazione del paese sull’orlo di un vulcano fa pensare, anche per le pennellate decise con cui l’autore dipinge Orrore Vesuviano, a un collegamento assai stretto con l’inferno: «la cittadina (che ormai conta sessantamila abitanti) è stata costruita intorno al cratere del Vesuvio, proprio così, e le sue case di pietra lavica si tengono abbarbicate lassù con la speranza di non rotolare di sotto. Le cantine dei palazzi di Orrore Vesuviano, per rendere l’idea, sono così calde che ci si può fare la sauna. Succede ogni tanto che dal fondo del vulcano, come per un rutto o per un singhiozzo, salta fuori un lapillo rovente che va a sbattere sopra il tetto di una casa o in testa a un cristiano.»
Di metafora in metafora, ci si accorge a un certo punto che da Orrore Vesuviano l’amore è bandito. I giovani che hanno l’imprudenza di innamorarsi della bellissima e ammaliante fioraia Aurelia Scala muoiono, infatti, in modi orrendi e misteriosi, ma in realtà significativi e leggibili da chiunque conosca alcuni tragici eventi e la lunga scia di sangue che li segue. E queste morti violente e annunciate costituiscono messaggi forti e chiari, anche se si tace e si finge di non comprendere; perché Orrore Vesuviano è un luogo in cui tutti sanno tutto di tutti, e tutti tacciono e tirano avanti, tollerando e inchinandosi a un potere mostruoso e tirannico che pervade ogni angolo dell’esistenza degli abitanti, assuefatti al sopruso e all’inaudita brutalità con cui esso viene esercitato dall’indiscusso, grottesco sovrano; talmente assuefatti da avere smarrito perfino la memoria del nome del posto in cui vivono, talmente assuefatti all’orrore da non conoscere più le proprie radici e da avere smarrito la via per tornare alla normalità. La normalità, per chi abita a Orrore Vesuviano, è la ferocia, la morte sempre in agguato. È, per lo sguardo ancora velato dal pensiero magico del piccolo Luca, il figlio della fioraia, l’idea che i problemi vanno risolti nell’unico modo in cui nel suo paese possono risolversi: con l’eliminazione dell’avversario. Ma i mezzi con i quali Luca pensa di potersi sbarazzare degli innamorati della madre adorata, che appunto considera nemici da sopprimere, sono quelli che riesce a immaginare un bambino.
Intorno ai personaggi principali (la bella, il tiranno, il suo sgherro, gli sfortunati pretendenti della bella, il bimbo quasi innocente, il principe non troppo azzurro e del tutto privo di mantello rosso e cavallo bianco), un vero coro greco di paesani punteggia di commenti spesso esilaranti la vicenda centrale, in cui si intrecciano i destini della seducente fioraia, del tiranno, «Emilio Malaspina, il monarca di Orrore Vesuviano, che a suo capriccio può far piovere o uscire il sole», di Dante, il fidatissimo braccio destro di Malaspina, di Victor, il principe non troppo azzurro venuto a Orrore Vesuviano per morire, del piccolo Luca, ben consapevole del fatto che nel suo paese non ci sono innocenti e che «include pure se stesso fra i tanti che non rigano dritto.»
L’amore, però, è una forza potente, scardinante, rivoluzionaria. E in questa storia d’amore e morte, drammatica e cruenta nei fatti ma raccontata con quella vena di sorridente malinconia tipica di tante espressioni artistiche partenopee (penso al teatro di Eduardo, al cinema di Troisi, a Pino Daniele, per esempio), si mescolano sberleffi, grandguignol e poesia, ingredienti calibrati attentamente dall’autore. Anche il finale sorprendente, che regala un retrogusto amaro, contiene tuttavia una speranza di riscatto. Il mondo, si sa, lo salvano i ragazzini.
Rosalia Messina