Che mese complicato, aprile. Con Pasqua e i ponti, l’ultimo dei quali lambisce il mese successivo, diventa difficile organizzare il lavoro in un momento in cui tutti vogliono rallentare il ritmo e addirittura smettere di muoversi. E lo vorrei pure io, ma nei lavori che prevedono il raggiungimento di un risultato più che la permanenza in un luogo determinato, nei lavori che per la maggior parte del tempo si svolgono a casa propria, liberi davvero non si è mai (al contrario di quanto di solito si pensa). Ma riesco a leggere e a scrivere anche nei momenti peggiori e aprile è stato anzi un mese ricco. Però, come faccio quando un libro mi è piaciuto particolarmente, parlerò solo dell’ultimo romanzo di Raul Montanari, Il regno degli amici (Einaudi Stile libero).
Che Montanari sia un abile costruttore di storie lo sappiamo. Pure nota è la sua capacità di far irrompere con naturalezza nelle trame che intesse il delitto, tra tutte le vicende umane la più sconvolgente. L’irrimediabile deviazione del corso dell’esistenza di tutte le persone coinvolte prescinde dalle conseguenze penali. Farla franca, sfuggire alla giustizia non è una vera salvezza, sembra dirci Montanari. Perché alla fine chi evita il carcere trova il modo di punirsi da solo. Però c’è molto altro in questa storia, che ho apprezzato per diverse cose: per la misura, innanzitutto, nel linguaggio e nell’intreccio. Per l’atmosfera, che è quella dei tempi, di quel 1982 che, come lo stesso autore notava in un’intervista, segna il discrimine temporale tra gli anni di piombo che si chiudono e l’epoca della Milano da bere che inizia. Un’atmosfera resa con la precisione struggente di certe fotografie. E poi mi ha colpito il modo magistrale, privo di ogni retorica, di raccontare l’adolescenza, con i suoi tormenti, i suoi picchi di entusiasmo e disperazione, il senso della morte, la scoperta dell’eros. I personaggi, adulti e non, sono tutti perfettamente disegnati, senza un dettaglio fuori posto, una parola stonata. E la colonna sonora (i Genesis, i Van der Graaf Generator) che accompagna le gesta di Demo, Fabiano, Ric ed Elia, i quattro giovani protagonisti che eleggono a loro regno una catapecchia sul naviglio Martesana, pare quasi di sentirla echeggiare nelle pagine scritte (almeno, a me è accaduto).
In quella catapecchia che chiamano regno e nei suoi dintorni i quattro ragazzi sperimentano i rapporti di forza, il peso micidiale dei ruoli tacitamente assegnati all’interno dei gruppi, l’attrazione per Valli, la giovanissima, incantevole ninfa del naviglio Martesana, l’incontro e lo scontro con realtà di malavita ed emarginazione. Nulla, dopo l’estate torrida del 1982, sarà più lo stesso per i ragazzi del regno. Non si passa oltre con disinvoltura, dopo aver conosciuto il male assoluto, il demone che alberga dentro ognuno di noi e che può rimanere silente per tutta la vita o svegliarsi secondo precisi meccanismi, diversi per ciascuno, che non siamo in grado di controllare. Il finale, che evita la consolazione fasulla, restando aperto a ogni sviluppo possibile, mi ha dato la sensazione che provo sempre quando un libro è scritto davvero bene: che di quella storia non si potrebbe cambiare neppure un fotogramma, che nulla potrebbe essere aggiunto e nulla eliminato, perché è perfetta così come l’autore l’ha immaginata.
Rosalia Messina