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Camus e la ricerca della felicità senza costrizioni

Siamo costretti a essere felici. Ce lo dicono tutti, ce lo ripetono sempre. In tv facce allegre anche di fronte la morte, risate per un premio vinto, euforia per una festa inattesa. La felicità è divenuta un obbligo sociale, prima che morale. Bisogna dimostrare di essere felici al vicino di casa, all’amico che non si vede da tanto tempo, al guardiano del parco, al tabaccaio, al barman. La felicità non è sempre stato il primo dovere dell’uomo: c’era prima il sopravvivere, il lottare per un pezzo di vita o di pane, la sofferenza, la miseria e l’angoscia della morte più presente e vicina.
Albert Camus ne fa una fondamentale questione filosofica, “decidere se la vita valga la pena di essere vissuta” (Il mito di Sisifo). Su questa domanda esistenzialista ruota anche il libro scritto da Robert Zaretsky sulla filosofia di Camus a tal proposito. In A Life Worth Living: Albert Camus and the Quest for Meaning (Una vita che valga la pena di vivere: Albert Camus e la ricerca del significato), Zaretsky prende in esame l’inchiesta esistenzialista dello scrittore e filosofo francese sulla ricerca di senso nell’assurda condizione di vita toccata all’uomo. Questa continua indagine assume per Camus un valore assoluto: più che trovare risposte alle domande “su chi siamo, se e dove trovare un significato, cosa possiamo conoscere di noi stessi e del mondo” Camus vuole “continuare la ricerca” di senso.
Il tacere del mondo, le sue risposte mancate e quelle accennate immergono l’uomo e la sua esistenza nell’assurdo che non è quindi “una situazione autonoma, ma deriva dall’abisso che divide noi e il mondo”. Camus non demorde. Quanto più ascoltiamo questo silenzio, tanto più dobbiamo continuare la nostra ricerca di senso, perché possiamo “disperarci per l’esistenza non avendo controllo su di essa, ma non per la storia, perché ogni individuo può fare qualcosa”.
Questa perenne ricerca di senso e di valori nell’assurdità dell’esistente viene scritta nei Quaderni 1951-1959, dove lo scrittore francese annota le sue riflessioni sulla felicità e infelicità umane. Per Camus non è fonte di umiliazione essere infelici. È parte della vita stessa, un senso di mancanza, a volte di assenza di vita “che portiamo in noi stessi che non ci sentiamo all’apice della felicità, ma che ricordiamo con dolore un altro tipo di gioia che va oltre la nostra memoria”. La felicità mancata per Camus, non deriva dalla sofferenza fisica o spirituale. Forse a volte il nostro stesso corpo crea delle illusioni e ci pone dei limiti. Molto spesso, però, siamo noi che “preferiamo i nostri principi alla felicità, ci rifiutiamo di essere felici al di fuori delle condizioni che noi stessi sembriamo aver legato ad essa”. Quando ciò avviene, cioè quando siamo felici al di là dei nostri confini, “ci sentiamo di colpo senza forze, infelici di esser stati privati della nostra infelicità”.