Il suo nome era Guittoncino di Francesco e nacque da una nobile famiglia toscana originaria di Pistoia (i Sighibuldi, o secondo altre versioni Sigisbuldi) intorno al 1270: per i più, semplicemente Cino da Pistoia.
Schierato con i guelfi neri (ai quali storicamente apparteneva la sua famiglia), Cino è stato coinvolto in prima persona nei fatti politici e bellici che hanno caratterizzato la Toscana medioevale. Uomo di cultura a 360°, poeta stilnovista – legato da una forte amicizia a Dante, il quale lo stimava molto – e giurista insigne, insegnò nelle Università di Siena, Perugia e Napoli. Di lui ci restano una Lectura in Codicem (che fu uno dei trattati giuridici più letti nel Trecento) e soprattutto un vasto canzoniere: quest’ultimo, con i suoi 165 componimenti – 134 sonetti, 20 canzoni e 11 ballate – è il più vasto tra quelli stilnovistici, secondo solo a quello di Petrarca, il quale avrebbe trovato proprio in lui il più vicino punto di riferimento per il proprio modello di poesia amorosa, che supera definitivamente il “dolce stil novo”.
La silloge di componimenti risente molto delle Rime dell’amico Dante: la strada percorsa è quella di una poesia misurata, che trova il suo equilibrio naturale tra una certa pacatezza tecnico-linguistica e impegno intellettuale.
Anche in questo caso, come vuole la tradizione stilnovista, al centro dei versi del poeta c’è la figura femminile: la donna amata è Selvaggia (la quale apparteneva ad una famiglia di parte bianca), di cui Cino rievoca con dolcezza l’aspetto fisico e le emozioni provate di fronte a lei. La più celebre fra tutte è probabilmente la bellissima Oimè lasso, quelle trezze bionde, ode scritta in occasione della morte di Selvaggia.
È da liriche come queste che emerge l’autentico Cino da Pistoia: allontanandosi dai rarefatti climi di Guinizelli e Cavalcanti, precorrendo la poesia di Petrarca, Cino si abbandona spesso ad una poesia della memoria, che parte dall’indagine del passato per far emergere emozioni, turbamenti, gioie e dolori del presente.
Da segnalare, infine, un’interessante e alquanto particolare canzone, Deh quando rivedrò ‘l dolce paese. Interessante e alquanto particolare perchè scritta durante il soggiorno napoletano (1330 – 1331), che – a giudicare dai versi – non fu molto gradito al poeta: di fatto la poesia si trasforma in un’energica invettiva contro Napoli e la sua “gente senza alcuna cortesia”.