Giocare a nascondino le piaceva davvero tanto. Era più esile dei suoi coetanei e riusciva ad infilarsi in ogni più piccolo anfratto della casa e del giardino: un armadio, un cassone, sotto una sedia. Vinceva spesso, e vincere le provocava sempre un moto di orgoglio e soddisfazione simile solo a quello che le dava mangiare una stecca di wafer al cioccolato, il suo preferito. La vittoria scendeva nello stomaco e lo riempiva di un sentimento caldo e dolce.
Quel pomeriggio di ottobre non voleva andare al compleanno di quell’antipatica di Anna per vederla spegnere dieci candeline. A lei Anna non piaceva: la escludeva sempre dai giochi a ricreazione, dicendole che era di troppo. Come potesse esserci una persona di troppo quando si giocava a rincorrersi non lo capiva, ma non poteva nemmeno ribattere qualcosa, perché era sempre Anna a decidere tutto. Anna era il capo.
Non la voleva mai ai giochi però l’aveva invitata al compleanno. C’erano tutti i compagni di classe alla festa, venti bambini urlanti assuefatti di coca cola e pop corn allo zucchero. Lei non amava i posti con troppa gente: si piazzava sempre in un angolo della tavolata, accanto al piatto con le patatine bianche che le piacevano tanto, e mangiava da sola. Adorava infilarsi le patatine una ad una in bocca, facendo venire a contatto il loro dorso salato con la lingua, che inizialmente si asciugava e poi le rendeva morbide. A quel punto, dopo che il sale le aveva colpito tutte le papille gustative, la ingoiava in un momento di libidine pura.
Anche quel giorno si piazzò accanto al piatto con le patatine bianche, senza che nessuno la coinvolgesse nei giochi. Le andava bene così, si sarebbe ingozzata così tanto che sua madre avrebbe dovuto farle saltare la cena.
Al grido di un suo coetaneo, però, le si drizzarono le antenne sul capo:
“Giochiamo a nascondino!”.
Ci fu un coro di “Sìììì” striduli da parte delle voci bianche di tutti gli invitati e lei non esitò a lasciare le sue amate patatine bianche per raggiungere i suoi coetanei.
Nessuno l’aveva badata finora e vincere a nascondino sarebbe stato l’unico modo per attirare l’attenzione su di sé. Voleva mostrare a tutti che era importante quanto loro, forse anche più di loro.
Si infilò, ignorata, nel gruppo di bambini al centro del cortile e prese parte alla conta per scegliere chi sarebbe stato sotto. Non fu lei e, dentro di sé, esultò.
…Uno, due, tre, quattro, cinque…
I bambini si disperdettero nel cortile e lei, prima di allontanarsi, si guardò attorno. Cercava un luogo adatto per nascondersi, uno di quelli dove nessuno avrebbe immaginato che si sarebbe potuta infilare.
…Ventidue, ventitrè, ventiquattro…
C’era un trattore nella stalla, nel rimorchio si erano già infilati dei bambini. Dilettanti. Sarebbe stato uno dei primi luoghi dove si sarebbe cercato.
…Cinquantasette, cinquantotto, cinquantanove…
Ecco! Due sedie accantonate in un angolo, abbastanza alte da potercisi raggomitolare sotto senza venire scoperti.
“Sessantanove, settanta! Arrivo!”.
Non l’avrebbero mai trovata, lo sapeva. Si sentiva emozionata, non vedeva l’ora di saltare fuori per ultima e dimostrare a tutti quanto era brava, quanto il suo corpo sapesse infilarsi in qualsiasi buco utile, quanto loro fossero meno in gamba di lei. Immaginava, nell’attesa, il momento in cui l’avrebbero guardata con la bocca aperta, increduli del fatto che si fosse nascosta in un luogo così geniale e insospettato. Gioiva della sua vittoria ancora prima di ottenerla.
Il bambino che aveva contato stava trovando, a poco a poco, tutti quanti. C’è chi riuscì a salvarsi, chi no. Alcuni discussero sulla validità o meno della regola che stabiliva che fosse possibile liberare i propri compagni scovati precedentemente. Alcuni non si preoccupavano minimamente della cosa, perché sapevano di essere comunque salvi.
Passavano i minuti e, dopo un quarto d’ora abbondante, il gioco era agli sgoccioli e lei era ancora lì, ad aspettare. Aspettò ancora, perché voleva assolutamente essere l’ultima ad uscire dal suo nascondiglio.
Aspettò e aspettò. E poi aspettò ancora.
Nessuno arrivò.
Dopo più di mezz’ora, si rese conto di non udire più le voci di nessun bambino. Osò sporgersi di un poco dal luogo in cui si era infilata e cominciò a capire.
Non si erano accorti che lei mancava ed erano andati a giocare al campetto di calcio senza di lei.
***
Camilla se ne stava appoggiata al muro, il bicchiere di plastica pieno in mano, con i denti a mordicchiarne nervosamente il bordo. Ballavano tutti, a quella festa, tutti si divertivano. Osservava le sue amiche che si dimenavano sensualmente nei loro tacchi vertiginosi, mentre lei temeva di muoversi dalla sua postazione per cadere rovinosamente a terra sotto gli sguardi di tutti gli invitati.
Quando qualcuno le si avvicinava, fingeva di ondeggiare impercettibilmente a ritmo di musica, sperando che le rivolgesse la parola. Non successe mai: i ragazzi si avvicinavano al tavolo, afferravano un bicchiere pieno, mangiavano due noccioline e poi se ne andavano come se non l’avessero notata. E probabilmente era così.
Le facevano schifo quelle feste. Sono tutti degli idioti, pensò Camilla mentre si riempiva le mani di patatine bianche e le mangiava osservando i suoi coetanei ballare in pista.
Però, ogni tanto avrebbe voluto essere un’idiota anche lei. Ballare senza pensare a quanto si sentisse ridicola, muoversi a casaccio al ritmo di una musica che non le piaceva, annullare tutti i pensieri.
Perché era così insicura?
I brani si susseguivano uno dietro l’altro, i suoi amici si dimenavano, sudavano, ridevano, gridavano, cantavano. E lei se ne stava appoggiata al muro a sorseggiare Coca-cola.
Non ce la faceva più. Appoggiò il bicchiere di plastica con il bordo mordicchiato al tavolo, afferrò una manciata di patatine bianche e uscì a prendere una boccata d’aria.
Faceva freddo e l’aria gelida le tagliò il viso già arrossato. Si strinse nella sciarpa di lana e osservò le sue scarpe con il tacco, comprate proprio per quella festa, per mostrare agli altri che era grande anche lei, grande abbastanza per mettersi un paio di scarpe vere, da donna. Provò il desiderio incontrollabile di calciarle via e rimanere a piedi nudi.
Un lieve rumore accanto a lei la fece sobbalzare. Un ragazzo si era appeno acceso una sigaretta e la guardò divertito, nell’accorgersi che l’aveva spaventata.
“Scusa. Non volevo farti paura”.
Camilla non poteva arrossire ancora, però sentì il sangue che le affluiva al viso per l’imbarazzo.
“Tranquillo, ero sovrappensiero”.
Lui annuì e sorrise. Rimase in piedi a fumare, senza accorgersi che Camilla, sorpresa e lusingata dal fatto che le avesse rivolto la parola, lo fissava. Voleva fare il primo passo, parlargli, buttare una battuta che l’avrebbe fatto ridere. Ma era congelata dal freddo e dalla timidezza.
“Queste feste non mi piacciono”, disse il ragazzo, senza rivolgersi a nessuno in particolare, quasi parlando tra sé. “La musica è sempre uguale, gli invitati hanno sempre le stesse facce”.
“Ne… neanche a me piacciono questi posti”
Lui si voltò e, con la sigaretta stretta tra indice e medio, le sorrise. “Finalmente qualcuno che la pensa come me. Di solito mi danno dell’asociale”.
Ci fu un momento di silenzio. I due si guardarono negli occhi e si scambiarono un sorriso.
***
Piangeva calde lacrime, seduta sola nella sedia che fino a pochi attimi prima l’aveva nascosta così bene da renderla assolutamente invisibile.
Erano andati tutti a giocare senza di lei. L’avevano lasciata sola.
“Cami, cosa fai qua?”.
Pietro, un bambino che veniva a scuola con lei, era tornato lì per un bicchiere di aranciata e riprendersi dalle corse al campetto. Aveva giocato a calcio e i suoi pantaloni chiari avevano cambiato colore, con grande gioia di sua madre, che l’avrebbe rimproverato non appena fosse venuta a prenderlo. Con gli occhi lucidi, il respiro ansante di chi torna da una lunga corsa e i capelli appiccicati alla fronte, si piazzò di fronte a Camilla che, con gli occhi gonfi di pianto, nascose la faccia nelle maniche della maglietta rosa.
“Perché piangi?”. Pietro si abbassò per guardarla in viso, ma lei continuava imperterrita a nasconderlo per non farsi vedere dal suo compagno di classe. Con voce soffocata grugnì:
“Non ho amici”.
Il bambino si rialzò e sbuffò. “Eh certo”, disse spalancando le braccia. “Se stai sempre da sola!”.
Camilla alzò lo sguardo, indispettita, e guardò il suo compagno di scuola. Non stava sempre da sola. Erano gli altri a non cercarla.
“Dai, vieni? Giochiamo a palla avvelenata”.
Per un istante Camilla fu tentata di rispondergli con un secco “no!”, girarsi e tornare al tavolo con le patatine bianche. Il piatto era rimasto pieno per metà e lei era lungi dall’essere sazia di quelle schifezze tanto buone. Poi però guardò Pietro, i suoi pantaloni sporchi, i suoi occhi lucidi. Provò un’invidia bruciante.
“Sì, vengo. Andiamo!”.
***
“Stai, stavo pensando che magari noi due… asociali potremmo andare a farci un giro in macchina. Ti offro un passaggio io, andiamo a berci una cosa in un posto carino”.
Camilla guardò il bel ragazzo che aspettava una risposta con la sigaretta in mano, il sorriso sghembo che mostrava un accenno di fossette. Osservò i suoi occhi. Anche se nella penombra, erano davvero belli, intensi.
Qualcuno dietro di lei spalancò la porta del locale per uscire e sentì un’ondata calda di musica e risate accarezzarle la schiena. Era la sua prima festa. Se ne ricordò solo ora.
“Mi spiace, sai, ma pensavo di tornare dentro a ballare un po’. Sarà per la prossima. Ciao!”.
Sorrise brevemente al ragazzo, che tentò di bloccarla con un braccio e la vide sgusciare via verso la porta che non si era chiusa del tutto.
Il locale era caldo e la musica assordante. Non le piaceva proprio quella musica, ma ora sentiva che qualcosa le si muoveva dentro e la spingeva verso la folla al centro della pista.
Si tolse i tacchi con un elegante movimento della caviglia e si gettò in mezzo ai suoi coetanei, ballando ad occhi chiusi senza pensare a nulla, solo a quella musica ritmata e terribilmente commerciale.