Ha l’istinto del flaneur, Luigi La Rosa: occupazione da perdigiorno, questa, universale ma forse specificamente parigina.
Io la chiamo la vocazione del camminatore, che scruta osserva si meraviglia si sorprende. Contempla.
Pochi hanno saputo fondere come lui la sistematicità dell’impegno alla poetica flaneristica del perdigiorno, ma il viso di questo ermetico parigino destinato a passare alla storia è tuttavia segnato da una ferita, un’inquietudine acerba (p. 22)
Parla di altri ma è se stesso che descrive.
De te fabula narratur, e questo è particolarmente vero per questo libro insolito, una guida sentimentale di Parigi che in realtà è molto di più.
“Il piccolo principe” ci aveva regalato l’immagine della fontana alla quale dissetarsi dopo un’ora di camminata, immersi nella gioia del passeggiare, dell’aprire ogni porta della percezione, nel godere di ogni sensazione. Ed è questa la gioia dei vagabondaggi, dei pilgrimages di Luigi La Rosa alla ricerca delle tracce più o meno antiche lasciate da chi ha vissuto Parigi: calpestarne le strade, respirarne le atmosfere, esplorarne la tavolozza dei colori, indagare le modulazioni dei suoi rumori, non per impadronirsi della città, per padroneggiarla. Per comprenderla. O forse è qualcosa di più puro: quasi un desiderio mistico di annullamento in essa, uno scoprirsene parte, frammento, elemento costitutivo. Come chi esplorasse ogni vena arteria canale linfatico di un corpo umano per scoprire infine di essere goccia della linfa che lo percorre, globulo rosso in circolo.
La forma da conferire a questo esperimento letterario, a questo carnet di viaggio, a questo cahier di impressioni storie ricordi riflessioni citazioni? Questo
il percorso: una scansione dei luoghi attraverso i luoghi, delle storie tramite le storie, una matrioska, una lista, un inventario, un elenco da percorrere (p. 21).
Un percorso spaziale per descrivere un processo mentale, un itinerarium mentis in Parisium, una laica e postmoderna Via Parisii.
Particolarmente indovinata la mappa di Alessio Grillo con gli autografi dei grandi che hanno vissuto a Parigi e che l’hanno forgiata modellata fatta più bella.
Parigi, città-rifugio, altrove, origine di tutte le cose, nel senso forse courbetiano del termine, città utero, matrice e sentina insieme, selva di cattedrali, cimitero e fiume, labirinto e boulevards, arte e vizio, illuminismo e follia: Hugo Baudelaire Manet Camille Claudel Hemingway Edith Piaf Flaubert Nerval Nadar Hugo Maupassant Rossini Chopin Maria Callas e mille altri artisti si ritrovano cittadini nativi e acquisiti di questa città che fagocita adotta partorisce a vita nuova l’autore e l’io narrante del libro, che racconta di un amore perduto e del proprio io, forse ritrovato a Parigi.
I nomi mi appaiono all’improvviso numerosi, una sterminata letteratura di esistenze da collocare ciascuna al posto giusto, e so di non avere scelta perché Parigi, per sua natura, non è disposta a tollerare compromessi, la sola cosa da fare è cedere alle sensazioni, credere al sogno, cercare di aprire un varco nel vasto mare delle sue memorie (p. 37).
La lingua di questo libro di La Rosa è preziosa e scelta, ma come il suo autore-narratore-protagonista mescola i piani dell’oggi e del ricordo, della Storia e della microstoria: parole come coupé convivono con Facebook.
Il senso profondo di questo libro è quello stesso della letteratura: un viaggio a Parigi è un percorso iniziatico alla scoperta di se stessi oltre che del mondo, attraverso le storie di chi è vissuto prima di noi.
Non solo: Luigi La Rosa Parigi la reinventa nel senso etimologico del termine: la ri-trova, la ricrea. Ne fa un monstrum, un nuovo oggetto che esiste nei suoi piedi, nel suo cuore, nel suo spirito di flaneur. E non altrove?
Negli spiriti capaci di vibrare all’unisono con la sua flanerie ulissica.
Forse, come scrive il greco Costantino Kavafis in quei bellissimi versi, devo soprattutto questo alla mia Parigi-Itaca: l’opportunità del viaggio, l’avermi concesso il piacere dell’andare (p. 47).