L’ultima spigolatura prima di questa è stata pubblicata il 4 settembre scorso. Be’, non è che sia trascorso un secolo, ma si sa come funziona la percezione del tempo: a volte sembra che acceleri bruscamente, poi che goccioli lento come un rubinetto che perde. Dipende da molte cose. Fatto sta che dal 4 settembre mi sembra sia trascorso molto più che un paio di mesi. Forse perché mi sono occupata di troppe cose e mi sono stancata e insomma, non sono riuscita a spigolare, cioè a riordinare i miei appunti di lettura per poterli pubblicare qui. Ma questo non vuol dire che non sono riuscita a leggere. Anzi. Più tumultuoso si fa il flusso dell’esistenza, meno dormo e, di conseguenza, più leggo. E poi è stato un periodo anche di tempi morti, di attese e spostamenti in treno; hai voglia di leggere, nei periodi così. A meno che non si abbia la pretesa insana di avere di fronte, per poter leggere, una distesa di ore. Allora no, non si può. Io sono fortunata, ho imparato per necessità a vivere (e non solo a leggere) a-spizzichi-e-bocconi e quindi leggo sempre. Anzi, nei periodi peggiori della mia vita ho letto moltissimo. L’incontro con Proust, per esempio, risale a un periodo oscurissimo. Decenni fa.
Dopo questa premessa, che nelle mie intenzioni iniziali avrebbe dovuto suonare come un chiedere scusa per l’assenza e poi − si sa come vanno queste cose, si parte per andare in una direzione e i passi ci portano altrove − è diventata una sorta di breve sfogo sugli ultimi due mesi un po’ convulsi, vi dico che sto leggendo Giuda di Amos Oz (Feltrinelli) e Il padre infedele di Antonio Scurati (Bompiani), finalista, il secondo, al premio Strega di quest’anno.
È andata così. Stavo leggendo Oz, al quale non riesco a resistere: mi capita sotto gli occhi un suo libro e devo leggerlo. Le passioni sono così, non lasciano scelta. E poi quel titolo, Giuda. Un personaggio complesso, che ha dalla sua il fascino del male, del cui tradimento si vorrebbero comprendere le motivazioni. Non possiamo rassegnarci all’idea che trenta denari possono essere motivo sufficiente per un gesto che costa al suo autore non solo la dannazione eterna, ma anche l’imperitura riprovazione collettiva. E non lo accettiamo perché poi Giuda si toglie la vita, autorizzandoci a pensare che quei trenta denari gli brucino in tasca e non costituiscano l’unica molla dell’azione spregevole per antonomasia, appunto vendere qualcuno per trenta denari.
Allora, come dicevo, stavo leggendo Oz. Andavo affezionandomi al giovane Shemuel Asch, ai suoi riccioli fitti e alla sua barba incredibilmente folta; seguivo con partecipazione le sue decisioni improvvise di cambiamento radicale, l’incontro con il vecchio Gershom Wald, un intellettuale disabile; soffrivo per la delusione d’amore inflittagli da Yardena, che d’improvviso sposa un ex fidanzato; provavo curiosità per la misteriosa e conturbante Atalia Abrabanel, che lo assume perché conversi con Wald. M’inoltravo nella storia, insomma, reggendo il mio tablet; quando, in una delle riaccensioni, lo sguardo è caduto sulle letture consigliate da Kobo, tra le quali il libro di Scurati. Ecco, un’altra cosa in grado di affascinarmi è un titolo come Il padre infedele. Mi tentano irresistibilmente (da sempre) le storie di famiglie disfunzionali (ma ne esistono di altro tipo?); e soprattutto (questo da poco) i libri in cui sulle relazioni e sui sentimenti uno scrittore maschio si assume la responsabilità di offrirci il suo punto di vista. Cosa pensano le donne di queste tematiche mi incuriosisce meno, perché non mi aspetto grandi sorprese, so che mi specchierò in un modo di vedere le cose simile al mio o, almeno, non troppo lontano dal mio. Cosa pensano i maschi, di solito poco propensi a questo tipo d’indagine, mi sembra molto più stimolante. Lo so, i recensori (ma io proprio non lo sono, non mi stancherò mai di dirlo; sono una lettrice che condivide opinioni sulle sue letture con chi ha la voglia e la pazienza di ascoltare) arricciano spesso il naso di fronte ai libri intimisti; su quelli scritti da uomini, poi, l’inarcamento di sopracciglia si spreca. A me, invece, questi libri piacciono.
E così sto leggendo in parallelo la storia di Shemuel e quella di Glauco, il protagonista del libro di Scurati. E mi hanno catturato entrambi. Mi guardo bene dal dire che la storia di Shemuel cattura il lettore, perché questo lo direbbe un recensore; a volte ho usato anche io locuzioni simili a questa e faccio ammenda per aver ceduto alla pigrizia mentale adagiandomi su stereotipi e frasi fatte. Se il fantomatico e indeterminato lettore esistesse, non avrei titolo a parlare in suo nome. Più semplicemente, quindi, dirò che mi sono sentita subito in sintonia con il protagonista e con le sue vicende, ho visto con il suo sguardo gli altri personaggi e gli ambienti. Per arrivare pian piano alla storia che soprattutto Oz vuole narrare, quella del rapporto tra Cristo e il suo traditore e delle ragioni di Giuda.
I due libri − diversissimi − che sto leggendo in parallelo hanno però due punti di contatto. Innanzitutto hanno per protagonisti due giovani (Glauco Revelli, quarantenne e da poco padre, possiamo annoverarlo fra i giovani) alle prese con momenti cruciali dell’esistenza. Anche Glauco, infatti, affronta un passaggio, una di quelle fasi in cui l’orizzonte del quotidiano si capovolge e tutto cambia; i binari che sembravano tracciati si distorcono e dobbiamo reinventarci quella felicità che sembra essere un miraggio, un colossale imbroglio, un falso traguardo. E poi i due romanzi hanno in comune il tema del tradimento, che nel libro di Scurati assume una delle sue accezioni più diffuse, quella dell’infedeltà. E qui starei per aggiungere l’aggettivo coniugale, ma in realtà non è così che la vede Glauco. Lui si sente infedele nei confronti della piccola Anita, la bambina che lui e la moglie Giulia hanno generato. La riflessione sulla paternità (e più in generale sulla genitorialità) a quarant’anni è molto interessante; il ritratto generazionale che ne viene fuori è spietato, accurato e piuttosto sconfortante. E proprio per questo il libro mi è piaciuto. Perché di luoghi comuni sull’essere genitori possiamo dirne e ascoltarne tanti, ma per uscire dall’opacità occorre coraggio, il coraggio di dire (e di ascoltare) qualcosa di meno superficiale, qualcosa che magari è difficile confessare.
Spero di avervi fatto venire abbastanza curiosità da voler leggere almeno uno dei due libri di cui vi ho parlato. E che non sono i soli ad avermi fatto compagnia in questo periodo: ho letto anche due libri di Donna Tartt, quelli che hanno preceduto Il cardellino. Dico subito che Dio di illusioni mi è piaciuto molto per una buona metà, poi ha cominciato a stancarmi, a sembrarmi ripetitivo nel suo proporre e riproporre all’infinito le dinamiche di gruppo che si instaurano fra sei studenti di greco antico in un college del Vermont e che sfoceranno in un delitto. Il piccolo amico, invece, ambientato in una cittadina del Mississippi (anni Settanta), mi ha stancato presto, essendo ancora più ripetitivo dell’opera prima della Tartt; la scrittura raffinata e lo scavo psicologico magistrale non sono riusciti a farmi superare la noia. Strano, perché i personaggi sono cesellati e la trama, se sfrondata di tutta una serie di inutili dettagli, è anche originale: l’assassinio inspiegabile e inspiegato di un bambino, Robin, trovato impiccato a un albero nel suo giardino; l’indagine della sorella, Harriet, giunta alle soglie dell’adolescenza, che crede di individuare il colpevole. Però non sono riuscita a seguire le troppe pagine francamente superflue.
I personaggi secondari sono molti e interessanti: una costellazione di vecchie zie, la nonna, la madre squilibrata di Harriet, la sorella più grande, Allison, remota e originale, le domestiche affezionate e fedeli (non del tutto ricambiate), il compagno di giochi e complice di Harriet, Hely, soggiogato dalla personalità fortissima di lei, reclutato per aiutarla nelle ricerche del colpevole e nei farneticanti tentativi di vendetta. Però io non sono riuscita a leggerlo tutto, nel senso che ho saltato molti passaggi che mi sembravano inutili e vi assicuro: la storia si capisce (o non si capisce) ugualmente.
Rosalia Messina