Uscì da quello che era stato il suo ufficio senza che nessuno tentasse di trattenerlo.
Avrebbe registrato nell’anima solo gli sguardi di tutti – Livia, Beba, Mimì, Ingrid, Anna, Fazio e tutti gli uomini del commissariato – sgomenti, addolorati, pieni d’amore affetto rimpianto stima, che cosa? Come si chiama quel filo che ci tiene legati a questa vita gli uni gli altri? Quello che quando si spezza ci trancia il petto qua, all’altezza del cuore?
Nella sala d’aspetto c’era un assembramento che Catarella era incapace di sciogliere e tantomeno di contenere.
Eppure questa gente lui la conosceva. O meglio, l’aveva conosciuta. In altre e ben diverse circostanza, si potrebbe dire così.
– Condoglianze, dottor Montalbano.
– Commissario…
– Mi dispiace tanto.
Tutti che gli stringevano la mano, gli toccavano un braccio, una spalla. Quella era… oddio. Michela Licalzi. Splendida, una vera billizza, un sorriso malizioso stampato sul volto. Incontrò i suoi occhi e il sorriso si tinse di una mesta dolcezza. Le gambe per un attimo gli fagliarono. Fatima. La pelle ambrata riluceva di una serena perfezione. Lo trafisse con uno sguardo che sapeva di gratitudine e compassione, poi lo baciò su una guancia. Il cavaliere Misuraca, arzillo il passo, splendente la dentiera. Gli strinse la mano che manco un picciotto. E poi…
Mio Dio.
Giugiù.
Aveva bisogno d’aria e se ne andò a fare la solita passiàta al molo.
Manco il familiare, amico scoglio gli fu d’aiuto.
Il mare pareva fermo, come se le onde non avessero gana di arrivare fino alla pilaia, al porto, laggiù, fino alla vertigine della Scala dei Turchi.
Che era tutta quella storia?
Livia, Mimì, tutti quanti che lo chiangìvano per morto… tutti i catàferi delle indagini passate che gli venivano incontro, vivi e vegeti, per fargli le condoglianze.
Calma e gesso, Montalba’.
Qua c’è una sola cosa da fare.
A Vigàta ancora qualche cabina tilifonica è sopravvissuta all’avanzare di cellulari e computer che fanno da televisione, telefono e se la fottono loro che cosa.
Montalbano, notoriamente allergico a queste manifestazioni del nuovo che avanza come una ruspa e abbatte quel mondo cui s’era faticosamente abituato e al quale spesso con nostalgia e rimpianto s’aggrappava, entrò furtivo nella prima che gli venne a tiro.
Che strano, ricordava il numero a mente anche se non lo componeva da anni.
– Pronto?
La voce incatarrata, che sembrava emanare volute di fumo anche a distanza di chilometri, era quella.
– Montalbano sono.
– Ah. Ma lo sa che ore sono? Io a quest’ora riposo. Dovrebbe saperlo.
– E io me ne stracatafotto.
Per dirla tutta, non so manco che ore sono, ma questo non lo disse.
– Ma si può sapere che sta succedendo? Ha idea in quale burdello mi ha messo?
– Mi pare che sia lei a cacciarsi nei guazzabugli, nei pasticciacci più brutti, per dirla con Gadda. Perché ne dà la colpa a me?
– Non siamo qui per parlare di letteratura.
– Ah no?
Pausa.
Già una volta Montalbano s’era ribellato ad un destino da pupo per fare a suo modo. E non era stata l’ultima.
Sospiro.
– Non può continuare così.
– Anche i personaggi letterari muoiono, lo sa Montalbano?
– Spesso continuano a vivere dopo la morte di chi li ha creati. E lei lo sa meglio di me.
Sospiro dall’altra parte del filo. E due.
Poi silenzio.
Come gli capitava sempre quand’era al telefono, Montalbano venne aggredito dalla paura assurda di trovarsi a parlare da solo in un universo vuoto e muto. Principiò a gridare.
– Pronto! Pronto!
Pronto una minchia. Non si sentiva pronto ad uscire di scena. Dillo, Montalba’. Non ti scantare. A morire. Ecco, l’aveva pensato. L’aveva detto.
– Non voglio morire.
Non sarebbe stato sicuro, dopo, d’averle realmente pronunciate, quelle parole.
Ma dall’altra parte del filo, forse, Andrea Camilleri le aveva sentite.
Montalbano attese. Una parola, magari un insulto. Niente.
– Pronto! Pronto!
Gli giunse quello che non s’aspettava. Una risata. Soffocata all’inizio, poi sempre più fragorosa e piena.
– Ma veramente credeva che le avrei permesso di andarsene prima di me?
Sospiro. E tre.
– Non le posso nascondere nulla, vero? Bene. Mi ascolti senza interrompere, poi riagganci e non mi scassi ulteriormente i cabasisi perché ho già deciso.
Montalbano s’azzittì pure mentalmente. Non era il momento di quistionare.
– In cassaforte, a casa mia, c’è già il manoscritto del mio ultimo romanzo che la riguarda. Le mie ultime volontà stabiliscono che venga pubblicato solo dopo la mia morte. E visto che è mia intenzione campare come minimo fino a cent’anni, lei può dormire sogni tranquilli. Se ci riesce.
Uno sfaglio momentaneo della voce? Un colpo di tosse? Cos’era? Un singhiozzo, forse.
– La saluto, Montalba’.
– Aspetti, aspetti. Solo una cosa.
– Veda che non sono il dottore Pasquano. Si sbrighi.
– Non voglio chiederle nulla. Le prometto una cosa.
– Che cosa?
– Non la farò pentire della sua decisione. Arrivederci.
Era meglio addio? Forse. Meglio non dirlo. La commozione gli artigliava la gola.
– E grazie.
Clic.
Passò dalla trattoria “San Calogero” ma resistette.
Tornò a casa.
Aveva chiamato Mimì e Fazio, e magari Catarella. Chiangeva, rideva, l’avevano preso per pazzo ma chi se ne fotte. Aveva chiamato Livia.
– Non sono morto, hai visto?
– Ma che c’è? Se è uno scherzo vedi che è cretino. Vuoi farmi dispetto?
– No, è successo che ti amo.
Nel forno c’era una parmigiana da resuscitare un carico di morti ammazzati, ma non ne toccò neanche un poco.
Si andò a corcare.
S’addormiscì di botto, come se gli avessero sparato.