S’arrisbigliò malamente.
Vagnatizzo, anzi assammarato di sudore.
Meno male che se l’era insognato!
Qualcuno gli aveva sparato in pieno petto e come diceva Freud – varda che minchia di pensate e non erano manco le cinco della matina – anche se i latri sono finti la paura è reale.
Il respiro si calmò, il battito tornò regolare. Squasi si diede del deficiente.
Stai invecchiando, Montalba’.
Dalle persiane non filtrava ancora manco una filàma di luce. L’aria era sirèna, anche troppo. Immobile.
La cosa che lo colpì maggiormente, però, fu il silenzio. Tutto taceva.
Anche il frigorifero, che certe notti scassava la minchia con quell’attacca e stacca delicato come un trattore nella grecchia, se ne stava – e qua ci vuole – come un quarto di pollo, muto e pazinzioso, là nella cucina, dove pure il ralògio a muro pareva essersi venduto le lancette.
Di riprendere sonno manco a pensarlo. Tambasiare casa casa in attesa che facesse iorno? Macari leggere quàlichi pagina del libro che si era accattato aieri e che stava ancora sul comodino avvolto nel cellofan.
Vederlo accussì gli fece una mala impressione, come di morto pronto per il cascione. O come quei poveri immigrati che dopo un viaggio in mare che manco l’Odissea, morti di fame e di sete, li ammogghiano in quella metallina che pare carta di uovo di Pasqua per non farli crepare di freddo.
Niente, non era cosa.
Restò qualche minuto a rivoltarsi come una delle cutulette di Adelina. Poi si stuffò.
E che è?
Le gambe parevano di ricotta e la testa principiò a firriargli come un tuppetto. Un tuppetto. Lo assugliò una nostalgia assurda e struggente per i giochi che faceva quand’era picciliddro. Che strano. Lui che al passato non ci pinsàva squasi mai, e d’improvviso s’arricordò pirchì. Come una botta in testa, l’assalì non il ricordo, non l’immagine, ma la prisènza viva di so’ matre. Biunna, bella da stare male, bella come forse non era mai stata. Sentì sulla varva non fatta una carizza, una. Fresca e tiepida nell’istisso tempo. Voleva affirrare quella mano e tinirasilla stritta, vasarla…
Riaprì gli occhi umidi e si ritrovò a stringere l’aria.
Al commissariato tirava un’aria strana.
Se ne accorse subito, manco il tempo di entrare.
– Ah dottori, ah dottori dottori! Ma lei qua è? O Madonna mia! Mariamariamariamari…
Catarella gli cadde davanti, preda di un sintòmo inspiegabile.
– Ma certo che sono io, Catare’!
Lo aiutò a susìrisi, gli pruì un bicchiere d’acqua.
– Ah dottori dottori!
Daccapo la litania. Forse il “signori e guistori” aveva fatto più burdello del solito, al telefono, e Catarella se n’era risentito.
– Ho capito! Ah, bestia che sugnu! Vossia è il gimello, il dottori Arturo!
Montalbano strammò.
– Il gemello di chi?
– Ah, dottor Arturo? Ma chi ci pare il momento di babbiare, quisto?
Montalbano si picchiò la fronte. Fu come un lampo nel ciriveddro. “Io ho un gemello che si chiama Arturo”. Tempo fa s’era messo a garrusiare al telefono inventandosi un fantomatico fratello gemello che ora rispuntava come un cadavere mal sepolto. Maledì la propria natura di tragediatore e le botte di metafisica stupidità di Catarella.
– Io sono, Catare’!
Agatino Catarella si fece serio. Con la manica della divisa asciugò occhi e guance, poi si ciusciò il naso con un fazzoletto, lo ripose a lento in sacchetta.
– Non babbiasse con mia, dottori Arturo. Io al commissario Montalbano ci voleva bene, ha capito? Ci avrei dato l’istissa vita mia, ca non vale niente a paro di quella sua, pi salvarlo. Ma non fu sorte.
A chi cerca? Al dottori Augello? Aspettassi ca ci lo chiamo.
Cosi ri Pirinnellu.
Roba da Pirandello. Così avrebbe commentato un analfabeta di Montelusa, Vigàta e dintorni al trovarsi in mezzo a una situazione grottesca come quella che Montalbano dott. Salvo stava vivendo dalle cinco di quella matìna.
– Mimì, vuoi degnarti cortesemente di spiegarmi che cosa sta succedendo in questo commissariato? Credo di avere diritto ad una relazione circostanziata dei fatti.
Il dottor Augello conosceva la pericolosità di certi toni apparentemente tutti scocchi e maniglie del suo capo e ne prevenne lo scoppio d’ira funesta. Montalbano però non si spiegava la reticenza circospetta, per non dire imbarazzata, del tono, dei gesti, dello sguardo del suo vice e amico.
– C’è che… che tu, Salvo, sei morto sparato alle cinco di stamatìna e ancora non abbiamo manco l’ùmmira di un sospetto, di una pista…
Mimì Augello l’abbrazzò e principiò a singhiozzare come un picciliddro.
– Salvù! Salvù!
– Mimì!
– Salvù…
– Mimì! Lasciami che mi ammazzi pi daveru!
La porta scatasciò. Catarella non ebbe manco il tempo di arriparàrisi la caduta e venne giù, porta e cardini compresi, la maniglia ancora in mano.
– Sono arrivate, dottori Augello. La signora Beba e la signorina Livia.
Livia? Ma se era partita due giorni fa, dopo una litigata apocalittica? Che fa, tornava a chiedergli scusa?
– Falle accomodare.
Montalbano provò pena nel vedere gli occhi di Livia, abbottati, gonfi, come di chi abbia pianto tutta la notte senza un momento di riposo.
Cimiàva come un àrvolo sorpreso da una tempesta improvvisa e si lasciò cadere su una sedia, la mano stretta a quella di Beba che piangeva senza ritegno.
– Ah, tu qua sei? Brutto bastardo, devi avere sempre tu l’ultima parola! Neanche il tempo di salutarti…
Scoppiò in lacrime, un fiotto di dolore lamintòso, assoluto, che straziava l’anima.
Montalbano non seppe che dire, il cuore gonfio di una compassione che era amore e ancora di più, l’impotenza disperata di chi non può asciugare le lacrime di uno ca chiangi pi tia.
Basta, basta.
Gli toccò ascoltare Beba che si chiedeva come avrebbe fatto a raccontare tutto a Salvuccio, il picciliddro che Montalbano aveva battezzato e che portava l’istisso nome so’.
Dovette assupparsi la faccia devastata di Fazio, che non riusciva a spiccicare parola e si grattava la testa come se volesse scipparsela.
Se lo figurò pronto a declinare le sue generalità: Montalbano dottor Salvatore detto Salvo, fu… nato a Catania nel 1950, il…
Avrebbe sopportato che gli elencasse uno per uno tutti gli abitanti di Vigàta, che scassinasse l’Ufficio anagrafe e gli contasse le storie dei paesani fino alla settima generazione, pur di non vederlo in quello stato.
Quando s’appresentò, trafelata ma sempre abbagliante, una Ingrid addolorata e incredula, seguita da Anna Ferrara con prole al seguito – Non avevo a chi lasciarli, appena ho saputo sono corsa qua – Montalbano non ce la fece più.
(fine prima parte)