«Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi all’alba per strade di negri in cerca di una siringata rabbiosa di droga, hipster aureolati bramare l’antico contatto paradisiaco con la dinamo stellata nel macchinario della notte”
Festeggerà tra un anno i 60 anni dalla sua prima lettura alla Six Gallery, il 13 Ottobre 1955, quello che può essere definito come il poema più rivoluzionario della letteratura americana nella storia moderna. Perché la rivoluzione ha varie sfaccettature, sfumature diverse, ma Allen Ginsberg nel suo totale abbandono alla melodia del verso, riesce ad abbracciarne la completezza, trasformando “Urlo” (“Howl” in lingua originale), in una delle più complesse e travolgenti strutture della poesia americana.
È solo apparente l’architettura caotica dei versi. Un’architettura studiata di proposito, tramite il tumbling hallucinatory, per creare l’idea di un respiro lungo, folle, pieno e totale, che unisce il respiro emotivo a quello fisico, in una suggestione allucinata e disperatamente forte. Ginsberg aveva studiato Whitman, mostro sacro e pioniere della poesia americana, e come lui si accorge dell’importanza del suono nella parola. Non è solo la lettura mentale che l’artista deve considerare, ma la declamazione del verso che deve rendere il suono delle emozioni trasmesse. Un respiro affannato quello di “Urlo”, che riecheggia perfettamente la sfrenata e sfrontata esperienza di vita della “Beat Generation”. Un’esistenza al limite del surreale, vissuta sul filo del rasoio, tra droghe e allucinogeni. La prima parte del poema -la più discussa- ne disegna ad arte l’enfasi, la disperazione, le ricerche sessuali senza censura, nella ripetizione ossessiva della parola “Who”, su cui si regge l’intera costruzione.
Fu proprio la prima parte, nel 1957, a causare la censura del poema. Ginsberg, e Farlinghetti (l’editore), furono accusati di oscenità per gli espliciti riferimenti sessuali di alcuni versi, fortunatamente poi revocata. Nella seconda parte, invece, l’attacco è alla consumistica società moderna che si concretizza nell’invocazione del Dio del Fuoco Molech, la cui anima è “elettricità e banche!”. La terza parte, la più emotiva, è quella dedicata a Carl Solomon, conosciuto in un ospedale psichiatrico a Rockland, in occasione di una visita dell’autore alla madre (a lei è dedicata Kaddish, presente nella raccolta “Il Saggiatore” insieme con “Urlo”). Con la dedica a Solomon Ginsberg sembra volersi spogliare delle sofferenze subite, in un urlo liberatorio che spezzi le catene del dolore, perché “l’anima è innocente e immortale non deve mai morire in un manicomio amato”.
Sorprende, nel leggere questi versi, che spesso la “Beat Generation” si limiti all’associazione con Jack Kerouac. Per quanto il coraggio di quest’ultimo nellaribellione delle strutture classiche sia evidente, infatti, non può essere paragonabile al lavoro operato da Ginsberg. La totale empatia che quest’utimo riesce a costruire, tramite ripetizioni e descrizioni vivide come dipinti inafferrabili, sono una rottura totale con il lessico stesso che lo ha preceduto. Il linguaggio subisce un ribaltamento assoluto, diventa crudo, vero nel senso più intimo. Non esistono paragoni con il genio di Ginsberg, tragedia e follia si mescolano ed entrano nella mente del lettore travolgendolo. Che fosse sotto effetto del peyote quando buttò giù i suoi versi, è di poco o nulla importanza, la rivoluzione che ha attuato sarebbe stata comunque senza precedenti.