“Nella parte inferiore della scala, sulla destra, vidi una piccola sfera cangiante, di quasi intollerabile fulgore. Dapprima credetti che ruotasse, poi compresi che quel movimento era un’illusione prodotta dai vertiginosi spettacoli che essa racchiudeva. Il diametro dell’Aleph sarà stato di due o tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne soffrisse. Ogni cosa era infinite cose, perché io la vedevo distintamente da tutti i punti dell’universo”.
Quando si legge Borges bisogna prepararsi ad una lettura senza fine poiché come scatole cinesi ogni racconto o romanzo ne contiene altri in un gioco infinito di conoscenza e mistero. Così nell’Aleph, antologia di 17 racconti scritti e pubblicati nel 1949 che hanno l’intento di proiettare il lettore nell’Alfa e Omega delle umane conoscenze. L’Aleph è la prima lettera dell’alfabeto ebraico e Borges non a caso utilizza questo simbolo. Esso rappresenta in matematica il numero degli insiemi di un insieme finito. Un gioco di numeri che porta ad andare a ritroso fino alla radice più piccola, fino allo zero assoluto, inizio di tutte le cose. Attraverso la lettura di ciascun racconto si viaggia nel tempo solcando continuamente il limine tra leggenda e narrazioni di fatti reali rivisitati però dalla penna e dalla fantasia del suo autore. Borges nella sua fulgida carriera letteraria ha potuto permettersi di giocare con la storia, riscrivendola con la sua caleidoscopica e camaleontica immaginazione. Così fa con “l’Immortale” (uno dei racconti dell’Aleph) la cui chiosa finale è di una bellezza disarmante:
“Quando si avvicina la fine, non restano più le immagini del ricordo; restano solo le parole. Non è da stupire che il tempo abbia confuso quelle che un giorno mi rappresentarono con quelle che furono i simboli della sorte di chi mi accompagnò per tanti secoli. Io sono stato Omero: tra breve sarò Nessuno, come Ulisse; tra breve sarò tutti: sarò morto” (cit pag 178)
Tutti i racconti, tranne due che sono la cronaca di fatti realmente accaduti, sono frutto delle fantasie dell’autore che come scrive in una postilla del 1949 (poco dopo la pubblicazione della raccolta) fa un abbozzo di “un’etica per immortali” e ragiona sul tempo e i problemi legati alla identità personale che ha bisogno di sperimentarne tante prima di trovare la propria (Cfr “I Teologi”, “Biografia di Tadeo Isidoro Cruz”). L’Aleph è un repertorio di umanità, di filosofie, di storia del Sud America e dell’Europa ed ancora è una indagine perpetua tra laicità e teologia sul mondo ideale su quel luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della Terra, visti da tutti gli angoli.
Ancora una volta il maestro argentino ci insegna a non considerare il tempo come una durata ma una direzione ed in questa direzione l’uomo non è solo ma accompagnato da suo doppio “metafisico” e “surrealista” insieme, che è la sintesi di questa come di sue molte altre opere.