Il gabinetto del dottor Kafka – Piccolo memoriale illustrato di ombre e fantasmi di Francesco Permunian è un contenitore flessibile di situazioni stravaganti, deviazioni autobiografiche e riflessioni sul passato. L’ironia non manca all’autore, che tra un episodio e l’altro trova il tempo di parlare dei grandi autori che l’hanno ispirato, ma anche di tutto ciò che al mondo gli sembra criticabile. Attinge da documenti e altri spunti per passeggiare indisturbato tra un episodio e l’altro, senza mai dimenticare di citare le sue esperienze personali, in un continuo mescolarsi tra ispirazione letteraria e vita vera.
Sono gli scrittori più celebri ad essere tirati in ballo da Permunian: dalle lettere di Jean-Paul Sartre e Simon de Beauvoir, alle visite di Franz Kafka e Winfried Sebald alla stazione di Desenzano, fino ad arrivare alle persone più care e vicine a lui. Un fondersi tra letteratura e luoghi d’infanzia, il tutto accolto da una cornice personale. Tra le tante figure di spicco, il poeta Robert Walser, del quale trascrive alcune cartelle cliniche relative al delirio di persecuzione che lo affliggeva. L’attività letteraria di Walser cessa, disturbata dalle voci che dominano la sua mente e muore di catatonia nel 1956. Così Permunian arriva a rimuginare sul periodo trascorso a ordinare archivi e trascrivere cartelle al manicomio di Padova quando aveva 20 anni.
Gli autori ammirati da Permunian non sono solo quelli di fama mondiale.
Angelo Fiore, Guido Cavani, Antonio Delfini, Silvio D’Arzo, Dolores Prato, Lucio Mastronardi, Amedeo Giacomini, Umberto Bellintani… perché mi attraggono simili autori carichi di polvere, buoni tutt’al più per qualche tesi di laurea? E potrei continuare ricordando i nomi di Volponi, Bianciardi, Meneghello, Piovene, e in particolare di Parise, che già trentanni fa veniva considerato da Tondelli alla stregua di un ferrovecchio di provincia. Forse, mi dico, sono le mie origini provinciali a farmi prediligere tali scrittori; a farmi amare certe loro pagine venate di sudore e follia visionaria. Ma è soprattutto nelle loro figure eccentriche e polverose (e quindi, nella loro sostanziale indifferenza alle mode letterarie) che io avverto il sapore di quella polvere che si alzava sulle strade solitarie della mia infanzia. Che poi è la stessa polvere amara, alla resa dei conti, che è costretto a ingoiare ogni vero scrittore per risultare degno del suo inevitabile destino di sconfitta.
Tratta tutti i personaggi (o persone reali e vicine a lui) allo stesso modo, mettendo sullo stesso piano gli affetti e gli individui più sinistri. Un racconto confuso, parodia del mondo vissuto, una dimensione secondaria e ironica che spezza le catene della realtà. Uno schizzo in parola, un continuo ritorno alla memoria e ai ricordi. Permunian non si lascia andare a sentimentalismi o afflizioni, le sue idee sono irrevocabili.
La sensazione che lascia è quella di non avere affrontato le sfide della vita con abbastanza ironia, ma non è mai tardi per iniziare a prendersi gioco del mondo.