L’altra notte ho fatto un incubo. Ero a casa mia, ma non quella dove sono cresciuta, era quella del sogno che sentivo come mia. Faceva caldo, fra il mare e il deserto, le finestre erano aperte, anzi, gli infissi erano stati tolti, forse mai montati. Ero in casa, pronta per uscire. Sentivo dei bambini giocare fuori al sole, delle mamme al mercato vicino parlottare e scambiarsi consigli, dei ragazzi sulle biciclette, altri a piedi, si rincorrevano fino alla fine della strada. La mia città non era molto grande. Non era neanche una città. Era un gruppo di case, quasi tutte sembravano invecchiate dal tempo, nei muri dei segni che il tempo però non aveva lasciato. Altre mura, più alte di quelle, toglievano la vista, il fiato, l’orizzonte era finito, quasi spezzato. Al cielo gli occhi potevano sempre correre e da li saltare quel cemento e ricordare, come irreale, un tempo in cui quella terra era insieme, alberi e uomini, animali e rocce.
Sapevo, quasi inconsciamente, che dovevo fare di fretta. Non ricordo dove dovessi andare. Ho in mente solo l’ansia di dover far subito. E la paura di non tornare. Era come quando si faceva tardi prima di una festa, o per andare a prendere il treno. Ma l’angoscia, quella no, era nuova. Era il terrore che un passo, un gesto venuto prima o dopo avesse potuto decidere fra la vita e la morte, fra il rimediabile e la fine. Guardavo quel cielo, blu come il mare visto dallo spazio, e ne avevo timore. Quel cielo in cui i pensieri si rincorrevano saltando sulle nuvole, quel giorno mi faceva rabbrividire.
Immaginate anche voi, come me, di trovarvi in quel sogno, che fino ad allora era tale. Poi d’improvviso la pioggia. Non quella fresca e dissetante, che nutre la terra e bagna le strade. Quella era una pioggia di fuoco, che bruciava anche l’erba che non c’era, i vestiti stesi ad asciugare e la pelle di chi li avrebbe indossati. Immaginate di non avere un ombrello per proteggervi da quella pioggia che ha odore di morte e di veleno. Trovatevi anche voi a terra, a temerne l’impatto, a sentire la terra che si apre e nella quale voi stessi, per terrore, vorreste sprofondare. Crederete di morire, e di volerlo davvero fare, pur di non sentire il silenzio, il tonfo e poi le urla, pur di non trovarsi bagnati, ma di sangue e carne, non i vostri, ma dei bambini che giocavano fino a poco prima, delle mamme con la spesa in mano, dei ragazzi le cui bici sono saltate e i loro corpi volati via.
Da quell’incubo mi svegliai, quasi senza accorgermene, come quando si sogna di cadere o di affogare, e dal terrore si balza sul letto. Quei bambini, quelle donne, quei ragazzi, loro no. Loro sono ancora là, fra la pioggia di fuoco e il sangue che brucia e bagna le strade di una terra che confini, mura, razzi, bombe e pallottole è stanca di ricevere. La chiamano guerra e parlano di tregua. Parlano di carri armati, incursioni nemiche, attentati, avanzate e ritirate.
Dimenticano la memoria recente, quella che ci dicono di ricordare, perché quelle cose non devono più accadere, e poi nascondono l’abominio dietro le mura, il sangue sotto la polvere, la carne dietro le case abbattute. Un amico, che non ho mai conosciuto, un giorno mi scrisse: “Se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde”. E aveva ragione. Togliete agli uomini il loro cielo e la loro terra: non avranno vita. Date ad altri storie da ascoltare e in cui credere: avranno un’illusione.
Ci dicono che c’è una guerra e le danno un altro significato. Non parlano di genocidio, parola troppe volte rivestita di esclusività e indesiderato privilegio. Ci dicono quello in cui credere, e ce lo insegnano con la saccenza dell’oblio. Quel mio stesso amico, una volta mi parlò: “I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere davvero pericolosi. Sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e obbedire senza discutere. […] Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà”. Primo Levi, questo il suo nome, mi parla ancora attraverso gli occhi di chi vive in Palestina e mi ricorda con voce, quella sì, davvero assordante, che noi non siamo uomini perché viviamo nelle nostre “tiepide case” , perché troviamo “tornando a sera il cibo caldo e i visi amici” e perché diamo un significato diverso alla parola guerra che stavolta non c’entra. Stavolta è un olocausto.