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La Vita in tempo di Pace, e la Guerra che si nasconde dietro.

«Attento, questa forse è bellezza, ma non accoglienza, non bontà, non fratellanza, non protezione, non sicurezza: questa è solo bellezza, non avrà nessuna cura, nessun rispetto di te». Ma Ivo allora non poteva capire e non capì ancora per molti anni, forse non capì mai.

Cosa si nasconde dietro il significato della parola “Pace”? Perché, se esiste un tempo di pace, la contrapposizione implicita prevede un tempo di Guerra, un tempo difficile in cui il contrasto e la violenza si dipanano a macchia d’olio, invadendo -non solo metaforicamente- intere popolazioni. Allora, nel nostro immaginario, il tempo di Pace si colora di tenue, di leggera, democratica, pacifica esistenza.

Ma Francesco Pecoraro, autore de “La vita in tempo di Pace” (edito Ponte alle Grazie, 2013), offre una prospettiva contrastante a questa idilliaca visione, controversa e forse a volte fastidiosa da accettare. Perché il suo protagonista, Ivo Brandani la guerra non l’ha conosciuta, eppure sembra portarsela dietro come un fardello pesantissimo di cui non riesce a liberarsi, e che condiziona ogni sua visione del mondo “esterno” a sé stesso.

Brandani è un tecnico, costruisce meticolosamente opere che resteranno in tutta la loro concretezza, come passaggio visibile dell’esistenza umana. Passaggio materiale e artificialmente naturalizzato, che tenta di ordinare un’esistenza incontrollata, disordinata, che sfugge alle regole della precisione. Quando Ivo comincia la sua storia, all’aeroporto di Sharm-El-Sheikh, incaricato di costruire la barriera corallina artificiale nel Mar Rosso, è il 29 Maggio 2015. E da questa data, che lo riporta mentalmente all’assedio di Costantinopoli, comincia il suo viaggio a ritroso nel tempo scandito da eventi storici. La memoria di Ivo ripercorre gli eventi che hanno segnato l’Italia recente, un periodo di pace che di pacifico, però, sembra avere ben poco.

Così nasce la guerra di Ivo, quella interiore, di uomo irritante e irritato, che si ostina a non accettare la finitezza e l’imperfezione della vita umana, continuamente infastidito dalla presenza delle rovine romane, dalle spiegazioni a suo avviso banali di un Padre che, in una visione più ampia, incarna l’intera vecchia generazione incapace di lasciare alla generazione futura una Bellezza vera. Qui si intreccia una guerra parallela, sottesa: la bruttezza del bello, la violenza con cui si è infierito sul presente, trasformandolo in un invitante cartellone pubblicitario, dietro cui si nasconde il vuoto, l’incompletezza. Il Capitale ha svuotato di significato il presente e il futuro, dando inizio ad una guerra più sottilmente nascosta, ma ugualmente devastante, la guerra delle classi sociali, delle ricchezze, del potere.

È una visione pessimistica quella offerta dallo sguardo di Ivo, che osserva il declino Italiano interiorizzando odio e rancore narrati, con un velo sottilmente ironico, in monologhi dettagliati, così perfettamente calzanti da sentirsi a volte travolti da un’onda di rabbiosa insofferenza. Un romanzo complesso, nella sua struttura e nel racconto, che offre un “flusso di coscienza” ben studiato, e un’architettura che sostiene perfettamente le varie parti del racconto. Non stupisce che l’opera di Pecoraro si trovi tra i cinque finalisti del Premio Strega, per la potenza del messaggio che trasmette, per la costruzione del complesso narrativo, e per l’immagine che come uno specchio offre della “Città di Dio” (Roma, ndr.), richiamo Pasoliniano che mette a nudo la decadenza burocratica, borghese e politica di un’Italia in cui de “La Grande Bellezza” non è rimasto che qualche vago ricordo.