Sembra incredibile a dirsi eppure sono tornata.
Credevo che Stoccolma mi avrebbe fatto bene, che starti lontana per un po’ avrebbe sistemato le cose, le avrebbe rese più facili, più dolci, meno dolorose, e invece no.
Prima di partire avevo organizzato una festa d’addio che doveva essere grandiosa. Volevo le lacrime, gli addii, le lettere a distanza, le mail con ore e ore di ritardo, le attese, gli aerei ed i mari che ci separano, Skype per sentire i miei genitori e le amiche, niente Facebook giuro, niente Facebook.
Giulia quella sera, la sera della festa, mi aveva regalato un taccuino. Riempilo, mi aveva detto, scrivici dentro tutto quello che vuoi e tutto quello che puoi. Sapeva la mia urgenza di scrivere, il vuoto da colmare con la penna, la mia vita da scrivere. Ma quale vita, pensavo io. Quale vita se non ci sei più tu, se le vie che abbiamo percorso assieme ora non sembrano più loro, se non ho una mano da stringere, se fare sesso con qualcuno non è fare l’amore con te, se niente più è speciale, se non c’è qualcuno con cui litigare e poi fare la pace, se non ci sei tu a cui dire “stasera pizza?” quando la giornata fa schifo, se non ci sei tu che mi ricordi di portarmi dietro l’ombrello quando esco da lavoro e fuori piove, se non ci sei tu e non ci sono i tuoi sms al mattino, i tuoi sms alla sera, i tuoi sms in ogni momento, se non c’è la tua Coca-Cola light, il tuo solito panino salsiccia e scamorza alle quattro del mattino, la scia del tuo dopobarba per casa, le tue camicie stirate, le scarpe allacciate, tu e la tua perfezione, tu e l’ordine, tu e le strade di Barcellona che abbiamo percorso correndo, tu e Parigi sotto la pioggia, tu ed i libri che mi hai prestato e non ti ho mai restituito, tu e tutte le cose che ti sei portato via da quando non ci sei più.
Quel taccuino non l’ho mai riempito, è rimasto in valigia. E Giulia non l’ho più richiamata. Quante telefonate senza risposta, quante cartoline avevo promesso di spedire. Ma quale valore dai ad una promessa se non hai una buona memoria, mi dicevi tu, e come vedi sono sempre la solita, non sono cambiata.
A Stoccolma ho incontrato un uomo. Insegnava Storia all’università. Sai bene quanto odi la storia, ma non appena l’ho incontrato in quel ristorante elegante dove avevo ordinato una bistecca di carne ai ferri non sono riuscita a dire di no a niente. Agli inviti al cinema, alle colazioni in quattro o in cinque insieme ai suoi colleghi la mattina, ai pranzi da lui e alle cene da me, ai weekend fuori città. Dovevi vedermi com’ero, dicevo sì, sempre sì, qualunque cosa, sì sì sì, sì mi va, sì mi piace. Ed è così che ho cominciato a capirci un po’ più di storia, perché ovunque andassimo, qualunque cosa facessimo mi parlava di Napoleone e della Rivoluzione Francese, Hitler e le sue schifezze, Ipazia ed i gusci di conchiglie, cose che prima ignoravo e adesso sapevo mentre poggiavo la mia mano sulla sua mentre guidava, mentre facevo la doccia nel suo bagno quando dormivo da lui, mentre andavo con lui alle mostre di quadri. Tutta gente importante, sai? Gente con cui avevo sempre detto mai avrò a che fare, e tu a dirmi che noi non saremmo mai diventati loro, mai avremmo messo da parte i nostri jeans per delle giacche e cravatte.
E poi guardami nel mio tubino nero e scarpe col tacco. Persino a bere champagne. Avresti riso di me, di come facevo la seria, di come mi sentivo importante. Mi avresti chiamato “pesciolina” perché sai che non mi piace essere chiamata così, perché è un nomignolo buffo. Lo avresti fatto solo per farmi ridere, perché dicevi che mi vengono le fossette attorno alla bocca, perché ami le fossette attorno alla bocca.
Non c’è stato giorno in cui non abbia guardato la porta d’ingresso, sperato entrassi per vedermi con quel cazzo di tubino addosso, per pensare “guarda come è cambiata” mentre rido alle battute dei presenti, mentre lui mi passa una mano dietro il collo, mi rivolge frasi sdolcinate all’orecchio, ed io distolgo gli occhi da lui, divertita e imbarazzata. Non sai quanti copioni ho recitato nella speranza assistessi anche solo a mezzo spettacolo, non sai che vita di finzioni quella vissuta qui a Stoccolma, e quante volte ho detto ti amo al mio professore perché stargli accanto era più facile che stare da sola.
Ma prima o poi le maschere cadono, e può succedere anche quando sei in un negozio a provare delle scarpe.
Tu non mi ami più, ha detto mentre mi stavo provando delle normalissime scarpe. Ero in piedi davanti allo specchio del negozio e lo ha detto, così dal nulla: tu non mi ami più.
Che cosa potevo dirgli se tanto a parlare erano le mie braccia, le gambe, gli occhi, tutto, tutto che tradiva mesi e mesi accanto a lui, i miei sì che erano no, le serate al ristorante per evitare i cibi surgelati a casa, i weekend fuori città per non stare da sola? Cosa potevo fare, avvicinarmi a lui e dirgli ti sbagli, convincerlo a non andarsene via mentre usciva dal negozio e pregarlo di ricominciare, ma ricominciare cosa, avrebbe chiesto lui, ed io zitta, perché non avrei saputo rispondere. Già, ricominciare cosa? Cosa era finito se nulla era iniziato?
Stoccolma, che cazzo di città, ho pensato mentre rifacevo le valigie. Il giorno dopo ho dato le dimissioni al lavoro: il bar non faceva per me. Ho buttato via gli abiti eleganti: non li avrei messi più. E anche l’abbonamento dell’autobus, la guida telefonica, i buoni sconto del supermercato, tutto, tutto quanto: vaffanculo a Stoccolma, vaffanculo a me, vaffanculo alle mostre d’arte, vaffanculo pure a te, che stavi lontano quando ti volevo vicino, che mi avevi lasciata, che ti avevo tanto amato, che credevo te ne saresti andato dalla mia mente ma evidentemente Stoccolma era troppo vicina a quello che eravamo stati.
Forse ci voleva una città più lontana, o forse andarsene non bastava.
Sono tornata nonostante la festa d’addio, nonostante Giulia e il suo taccuino, e sei la prima cosa che vedo appena raggiungo il locale quella sera.
Siamo alla stessa festa, tra tutti i centri sociali proprio questo, tra tutti i festeggiati proprio di Michele dovevi essere amico.
Ci incontriamo al bancone, io sto ordinando un succo di frutta e tu qualcosa di forte, fai fare al barista che annuisce e ci dà dentro con ghiaccio ed alcolici.
Ci salutiamo ma non subito, forse passano anni prima che ci diciamo ciao, ed in tutti quegli anni ci domandiamo se sei proprio tu, se sono proprio io, se una volta quelli eravamo noi due, noi due sulla spiaggia di Bordighera, i cinema all’aperto ed il sesso fatto in macchina, quello più bello.
Facciamo finta di niente, tu non sai di Stoccolma, io non so chissà quante cose, chissà quante ragazze tra le tue braccia la notte, chissà al lavoro come va, se è sempre quello o se è altro, e che cos’è quell’altro, cosa c’è dietro a quello che sei ora, dietro ad ogni cosa…
Ci separa mezzo dito, potremmo anche baciarci o dirci qualcosa, fosse solo “ricominciamo” oppure “carino il posto, vero?”, ma la verità è che siamo caduti in miliardi di pezzi, difficile ricomporsi, specie ad una festa ed in un locale come questo, specie così su due piedi, all’improvviso, dopo mesi di assenza, dopo mesi che non sappiamo come stiamo, dove siamo andati, cosa ci siamo persi nel frattempo, quali città e quali amori. E poi il frastuono, la musica ad alto volume…
Stiamo così, non ci avviciniamo, io ho il mio succo di frutta in mano, tu il tuo alcolico, e attorno a noi la festa.
Lo senti il casino? Le urla, le palline del calcetto che fanno rumore?
La pioggia là fuori?