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Avere trent’anni in tempi di recessione: “Marina Bellezza” di Silvia Avallone

   Marina e Andrea, i protagonisti di questo romanzo di Silvia Avallone (edito da Rizzoli), sono giovani. Appartengono alla stessa valle in provincia di Biella, alle stesse montagne, allo stesso paesino. Hanno avuto un amore adolescenziale e poi si sono persi. Anzi, Marina è scomparsa dall’oggi al domani, ha lasciato insalutata il paesino, la valle, le montagne e Andrea non ha più avuto notizie di lei.  La ritrova su un palcoscenico, in una serata alcolica e confusa. Marina – una madre alcolizzata, un padre distante, che ha mancato tutti gli appuntamenti importanti con la figlia – canta bene ed è bella, di quella bellezza da velina che usa come un grimaldello, intenzionata com’è a realizzare i sogni che coltiva, visioni un po’ sdrucite del futuro che la accomunano a una miriade di ragazze come lei: la televisione, il successo, il benessere economico. Andrea è il figlio del sindaco. In fuga dai valori della sua famiglia, anche lui ha un sogno, inconciliabile con quelli di Marina: costruire qualcosa nella sua valle, inventarsi – e reinventare – un mestiere antico, sottraendosi alle aspettative che la famiglia nutre su di lui (un po’ come il protagonista di Non so niente di te, di Paola Mastrocola). Suo fratello Ermanno, quello bravo e allineato, vive a Tucson, in Arizona, e si comporta come si addice al rampollo di un avvocato di successo. La distanza transoceanica non impedisce a Ermanno di costituire una presenza ingombrante nella vita di Andrea.

   I miei consigli e “sconsigli” di lettura non scendono mai nel dettaglio dell’intreccio, che il lettore, se vuole, scoprirà da sé. Qualche avvertenza, però, sento di doverla fornire. Nonostante i personaggi e la trama di Marina Bellezza soffrano di qualche stereotipo di troppo, nel complesso sono credibili. Marina e Andrea vivono vicende tipiche dell’età di passaggio dall’irresponsabilità giovanile agli impegni da adulti, con tutte le contraddizioni e le difficoltà di fare scelte definitive (o comunque dalle quali è difficile tornare indietro) ben note a chiunque abbia a che fare con i giovani, con le loro incertezze, i loro dubbi, la loro sicumera di facciata e la fragilità malcelata. Anche il continuo lasciarsi e riprendersi dei due protagonisti, il loro scegliersi e revocare la scelta e tornare a scegliersi è tipico di una fase di costruzione dell’dentità che oggi dura ben oltre i trent’anni.  Ma ci sono, in questo romanzo, alcuni punti deboli. Innanzitutto il linguaggio un po’ smagliato, che vira sul parlato anche fuori dai dialoghi (per esempio, con espressioni quali “non più di tanto”, o “quanto si vuole”, che dovrebbe colorare una serie di aggettivi e invece appesantisce inutilmente il ritmo, o ancora “un tubo” e “da dio”, che dovrebbe significare “benissimo, in modo superlativo”, e “una roba”). E, nonostante l’editing cui indubbiamente il romanzo sarà stato sottoposto, il lettore non può fare a meno di notare l’inconguenza di un paragone che Marina mentalmente fa tra Andrea, presente a tutti i suoi concerti, e il padre latitante, piazzato in un momento della storia in cui i due giovani si sono da poco rivisti per caso, dopo una cesura di tre anni durante i quali i loro passi non si sono più incrociati. Peccato, perché questa giovane autrice di cose da dire ne ha tante.

Rosalia Messina