5 giugno o 5 luglio 1224. Federico II di Svevia, Imperatore del Sacro Romano impero e Re di Sicilia, con provvedimento sovrano, fonda l’Università di Napoli, la prima università laica e statale in Europa, che oggi porta il suo nome.
Definito studio universale di tutte le scienze, l’Ateneo Federiciano si pone come obiettivo non solo quello di formare i giuristi e gli amministarori necessari a coadiuvarlo nella gestione dell’Impero, ma anche quello di favorire la formazione educativa e culturale dei suoi sudditi, evitando loro il disagio di viaggiare in luoghi troppo distanti.
L’amenità e la strategicità della città di Napoli sono determinati nella scelta del sovrano.
Tutto questo è tipicamente “federiciano”.
Per chi vive al Sud, da Napoli a Palermo, e soprattutto nella bella terra di Puglia, che lo si chiami Federico di Sicilia o Puer Apuliae, “federiciano” e “federiciana” sono due aggettivi che tornano continuamente.
Definiscono uno stile architettonico e militare, delimitano un periodo storico, rievocano qualcosa di magico ed esoterico, ma non circoscrivono mai un modo di concepire la cultura più in generale che, ancora oggi, è sinonimo di grande apertura mentale e di estrema ricchezza.
Federico parlava sei lingue, si circondava di uomini dalla variegata provenienza e formazione culturale (filosofi, letterati, scienziati, cabalisti, negromanti, architetti), diede vita ad una corte e a ad un regno multiculturali e multietnici, promuovendo le lettere attraverso la poesia della Scuola Siciliana, prima culla della lingua e della letteratura italiana.
Molti di noi, da ragazzi, probabilmente hanno letto “La bambina col falcone” di Bianca Pitzorno in cui la piccola protagonista, figlia di un falconiere al seguito di Federico, ci accompagna in un viaggio nel magico mondo del Medioevo. Solo apparentemente, in questo romanzo, la figura del sovrano è sullo sfondo.
Più recentemente, invece, l’immagine di Federico II è stata restituita con grande vividezza e puntualità storica da “Il Falco di Svevia” di Maria R. Bordihn, un’opera straordinaria che ripercorre, tappa per tappa, la vita di una delle figure più affascinanti della storia, rendendoci partecipi di una storia come poche.
E chi non ha mai sentito parlare del “De arte venandi cum avibus” e delle poesie d’amore scritte dallo stesso Federico II, così disinvolto nel passare dallo stile del trattatista più rigoroso a quello del poeta più appassionato?
Perché ciò che lascia ancora affascinati a distanza di secoli è quell’idea di fondo che permea tutta la vicenda di questo sovrano: portare unità ed armonia laddove c’erano rotture e distonie.
Perché, alla fine di tutto, che lo si consideri un mito o un anticristo, è questo modo di essere di Federico, questo essere così “federiciano” che ci lascia stupiti, che ci rende partecipi, ancora oggi, di quello Stupor Mundi che egli rappresentò per i suoi contemporanei.
Ben 30 città pugliesi sono “città federiciane”, inserite in quella che è stata ribattezzata La Strada di Federico II: 720 km che attraversano tutta la Puglia, terra amatissima da Federico. Il Castello di Barletta, che pulsa di storia e narrazioni, orgogliosamente, custodisce quello che, seppure con qualche perplessità, è considerato l’unico ritratto dell’Imperatore.
Ricordare Federico, e ricordare l’università da lui fondata, che avuto tra i suoi studenti e i suoi docenti nomi illustri (Tommaso d’Aquino, Giordano Bruno, Giambattista Vico, Benedetto Croce, Nicola Abbagnano, Vincenzo Arangio-Ruiz, Benedetto Conforti) significa ricordare un uomo di ambizione e lungimiranza, di grande cultura e straordinarie capacità politiche, che rimane un esempio di quello che potrebbe essere e dovrebbe continuare ad essere il Sud, per la cultura dell’Italia, dell’Europa e del Mediterraneo.
Un’idea di cultura che, nell’urgenza dei tempi che viviamo, si fa più ampia e comprensiva di concetti quali accoglienza, amicizia, solidarietà, scambio, multiculturalità, multietnicità.
Un’idea di cultura decisamente moderna. In una parola : “federiciana”.
“I cristiani suonavano le campane, gli ebrei le trombe e i musulmani usavano la voce umana per chiamare i fedeli alla preghiera. Come sono simili, pensò Federico.”
(da “Il Falco di Svevia”, Maria R. Bordhin)