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L’America degli interni spogli

I racconti di Carver necessitano un passo lento. Non ci si può avventare su di loro con qualche pretesa.

Considerato a lungo il leader del Minimalismo letterario americano, poi rifiutata questa etichetta, Raymond Carver esordisce con la sua prima raccolta di racconti nel 1976 (un caso letterario di quei tempi). Lo squallore provato sulla propria pelle induce l’autore a raccontare storie ambientante in una desolazione molto simile a quella della sua vita, senza per questo diventare autobiografico. L’alcolismo, la povertà, la situazione famigliare difficile fanno da cornice alle epifanie rintracciabili nei suoi racconti. Protagonisti sono i reietti della società e le loro esistenze in disfacimento. Le scenografie più gettonate: interni di case desolate, senza vita e senza significato. Questi sono gli elementi da cui Carver ha tratto ispirazione per iniettare parte della realtà nelle sue costruzioni narrative. In un’intervista ha dichiarato che nessuna delle sue storie sia mai avvenuta, ma che c’è sempre in ognuna di essere un elemento, un qualcosa che gli è stato detto e da cui ha preso spunto.

Perché non ballate? è il racconto con cui si apre questa raccolta. Prime poche pagine che lasciano un certo senso di disagio difficile da scrollarsi di dosso. Un uomo di mezza età sparpaglia la sua mobilia in giardino e mette tutto in vendita. Invita una coppia a scegliere ciò che più gradisce senza curarsi del prezzo, accende il giradischi e propone di ballare. Carver non spiega né come, né perché quest’uomo abbia assunto l’aria disperata di un disilluso. In poche righe ci suggerisce qualcosa di lui, nascondendone ossessioni, dolori, fissazioni. Ci propone solitudini consumate in coppia, come quella di Holly e suo marito, che hanno preso in gestione un albergo e un giorno qualsiasi si svegliano rendendosi conto di aver toccato il fondo. Un padre racconta al figlio aneddoti della sua vita passata senza riuscire a toccare il punto più importante: un adulterio impronunciabile. O ancora un altro padre di famiglia che “vuole dire un’ultima cosa” ma non ci riesce perché non la ricorda. E tra i personaggi più inquietanti Dummy, isolato fino all’ossessione per dedicarsi totalmente al suo laghetto di pesci. Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, un discorso tra due coppie sul senso dell’amore e dello stare insieme che non approda a nessuna risposta mantenendo viva la sensazione di vivere in un limbo di incertezza.

Confusi, monchi, tranciati di netto senza risoluzione alcuna, questi sono i racconti di Carver. Poche spiegazioni e pochi giri di parole. I protagonisti di Carver sono lasciati a se stessi, in balia di un mondo ormai privo di uno scopo apparente. Abbandonati alla loro vita vuota, sono immortalati in uno spezzone di vita emblematico che li rappresenta senza volerli spiegare a tutti i costi. Il taglio anonimo dato alla narrazione rispecchia la magrezza dei paesaggi interiori dei protagonisti, che appena accennati rivelano se stessi. La sua immediata asciuttezza sta lì, palese, come a volerci ricordare che sta diventando difficile anche raccontare. Che la scrittura e la narrazione non sono più un rifugio.

Il suo credo letterario:

La narrativa non deve fare niente. Deve solo esserci, per l’ardente piacere che ci viene dallo scriverla e per il diverso tipo di piacere che ci viene nel leggere qualcosa di duraturo e scritto per durare, oltre che bello in sé e per sé. Qualcosa che getti qualche scintilla in un chiarore persistente e saldo anche se fioco.