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Il compromesso storico (e personale) attraverso gli occhi del dubbio

Il desiderio di essere come tutti (edizione Einaudi, fra i finalisti del premio Strega 2014) – è già di per sé un titolo che ha un certo impatto. Non anticipa il contenuto del libro, che rimane oscuro fino a che non ci si addentra nel racconto, ma conferisce un’atmosfera tutta personale ad un romanzo che sembrerebbe invece portare in una direzione più documentaristica. È invece autobiografica quest’ultima opera di Francesco Piccolo, nonostante ripercorra le vicende dell’Italia dall’apice della carriera politica di Berlinguer agli eventi più recenti sul caso Berlusconi.

L’autore inizia a raccontare episodi della sua prima infanzia, un’epoca toccata da un evento particolarmente importante: la sua seconda nascita. Dopo una marachella si trova solo nel giardino della Reggia di Caserta e capisce, in una temporanea illuminazione, di far parte del mondo. La sua consapevolezza politica, la carriera di scrittore e giornalista, gli avvicendamenti amorosi, deludenti e rassicuranti fanno parte di un grande mosaico d’esperienze che finisce per formarlo come persona, integra, pura, o impura. E che inizia proprio lì, in quel giardino solitario che l’ha svegliato dal torpore della fanciullezza. La consapevolezza raggiunta dopo aver attraversato il pericolo del colera non ha prezzo nella vita densa d’avvenimenti “sfiorati” dal protagonista. Il timore di aver preso la malattia e l’idea di poter morire da un momento all’altro lo assalgono per qualche interminabile ora e cambiano definitivamente il suo approccio alla realtà. Il legame indissolubile tra la sua acerba personalità e gli eventi del reale lo colpisce intimamente, fino ad approdare ad una conduzione della vita che viaggia forzatamente su questi due binari. Una base, un substrato primitivo di cui non può e non vuole liberarsi e che lo accompagnerà in tutte le sue decisioni future. È proprio a proposito del colera che il protagonista prende atto della superficialità della madre: prima con rabbia, poi con infinita riconoscenza per aver protetto la sua vita dalle lusinghe della tragedia. La sua forza di resistere alla vita esterna perché non potesse interagire con le loro vite, una protezione superficiale e quasi inconsapevole.

Dalla purezza dell’infanzia scaturisce la decisione presa su due piedi di diventare, anzi essere, comunista, dopo aver assistito alla finale dei Mondiali di calcio disputata tra la Germania dell’Ovest (i “nostri”) e quei “poveracci” della Germania dell’Est (che inutile dirlo, prende immediatamente in simpatia). È il disagio che prova di fronte a ciò che dovrebbe pensare e a quello che invece pensa realmente che lo pone su un piano critico, il primo della sua vita, e che lo conduce alla decisione di diventare comunista. Dapprima una scelta presa con istinto, poi una vera e propria convinzione che, tra alti e bassi, lo accompagnerà per tutta la maturità e oltre. Nel tempo si sentirà accerchiato dai giudizi dei parenti, degli amici, dell’ambiente così diverso dal mondo che lui ha scelto. E il confronto con loro, con i simpatizzanti di destra da un lato e gli altri, i ragazzi dalle idee più estremiste che lo canzonano ritenendolo un borghese viziato, lo porta ad essere solo tra due fuochi, con le sue idee e i suoi dubbi, sempre e comunque critico. Il comunismo in lui nasce come slancio verso i più deboli e con una speranza di rinnovamento. Si innamora del progresso di Berlinguer perché risponde alle sue giovani esigenze di voler cambiare il mondo. Racconta anche del caso Moro, come lo colpì nel profondo e come lo segnò l’atteggiamento delle persone che gli stavano vicino: il gruppo di attivisti di sinistra di cui faceva parte Elena, il suo primo amore, gioisce inizialmente di un avvenimento che al contrario lo sconvolge negativamente. Desiderava essere come loro fin dal primo giorno del liceo, ma ora si sente lontano quelle idee. Il padre lo ritiene un terrorista senza speranza, il gruppo di liceali un borghese democristiano. E lui lì, nel mezzo di una guerra identitaria alla quale non partecipa direttamente.

Stavo in mezzo, ero il compromesso tra queste due faccende della vita. Ero il compromesso tra il coinvolgimento totale e l’estraneità. Era, insomma, il mio sguardo sul mondo, che non sarebbe più cambiato

Un periodo della vita più infelice che felice, quello passato a rincorrere i propri ideali e ad ammirare Berlinguer. Un periodo della vita più sereno, quello in cui si accanisce contro il “nemico” Berlusconi. Lo spostamento graduale da una vita che credeva “pura” a quella “impura” dove maggiormente si mette in discussione. L’epoca della vita impura, quando si afferma nella vita pubblica e gli viene richiesto di firmare appelli, scrivere articoli moraleggianti, dare la sua opinione sul mondo. Tutto questo nella spirale di indignazione nei confronti di Berlusconi che vede accuse contro di lui che proteggono da qualsiasi ragionamento critico, un nemico da combattere e additare quando la situazione lo richiedeva.

Ed era come se ci fosse un collettivo scuotimento del capo, di tutti noi civili e moderni, alla vista di ciò che stava accadendo al nostro Paese.

La purezza degli intellettuali a tutti i costi, un morbo che lo aggredisce ma da cui vuole costantemente scappare. Un distacco forzato dal mondo che reputano sbagliato, quello che l’elite non si degna di considerare come suo. “Se dici che il mondo non ti piace dici implicitamente che non partecipi”, scrive Piccolo. E da una posizione di tale superiorità puoi permetterti di giudicare il mondo “altro”. Le sue intenzioni assomigliano sempre di più a quelle di Parise che scrive: “Non accettiamo di starcene lì seduti, inermi, a deplorare e a ricordare di aver fatto di un mondo migliore che non esiste più; anche se dovessimo pensare che quel mondo che non esiste più era migliore. Ma è più vitale ed è più utile il desiderio di far parte di un mondo fragile, peggiore – se si è deciso che è peggiore, pieno di problemi complessi ma che fa parte del presente. E in cui siamo impegnati a sentire la necessità di vivere oggi e non ieri”.