C’era una volta: sì, perché questa storia inizia così, con un «c’era una volta». C’era una volta un unicorno: un unicorno che possedeva un bambino, o un bambino che possedeva un unicorno. E poi no, nessuno dei due possedeva l’altro: non ne avevano bisogno. È che quando si ha bisogno l’uno dell’altro, non serve possedersi, non serve dire «tu sei mio», non serve un marchio, un tatuaggio, un anello, un guinzaglio, una minaccia, un’etichetta cucita, una scritta col pennarello sotto la zampa. Non serve, e questi due si possedevano l’un l’altro perché non potevano fare altrimenti, perché si completavano. Come due pezzi di un puzzle, come lo yin e lo yang, come i cereali nel latte, come se il corno bianco di quel cavallino azzurro fosse perfettamente a misura del pugno chiuso di quel bambino che lo trascinava per tutta casa, come se la misura dello stomaco del cavallino fosse perfettamente contenuta nell’abbraccio del bimbo quando la sera spegnevano la luce e andavano a dormire. Come se tutto ciò che serviva a quel bambino, in ogni momento, ce l’avesse lui. E viceversa.
Eppure non aveva niente quell’unicorno: non poteva fare regali, non sapeva cucinare, non parlava, non correva nell’erba, non aveva figurine da scambiare e non sapeva spiegare la matematica. Non sapeva proprio niente di matematica, niente di niente. Non sapeva nemmeno sommare a un due un altro due. Niente. Bel cruccio la matematica per Tommaso – eh sì, si chiamava Tommaso il bambino dell’unicorno -, il suo più grande problema. Più fastidiosa dei denti da lavare dopo ogni pasto e più del dentista che lo comandava, più del sibilo che ogni tanto gli sembrava di sentire la sera quando si metteva a letto, più della zia Maria – che poi non era veramente sua zia, ma una sorella della nonna – che almeno una domenica ogni due doveva andare a trovare e, in cambio di una manciata di orsetti gommosi, lo riempiva di baci e di profumo. Più fastidiosa di tutto. L’aveva scoperto a sette anni, il dramma della matematica. La prima elementare era andata liscia, Tommaso era un bravo bambino e faceva sempre i compiti, a scuola era composto, alzava la mano, giocava e socializzava, scriveva dei bei temi senza troppi errori e disegnava come un bambino di quarta, forse di quinta. Poi, poi la matematica era piombata su di lui come l’abbraccio di zia Maria, con gli addendi delle addizioni in colonna che gli sembrava si spostassero, che scappassero come avrebbe voluto fare lui quando la zia lo avvinghiava. Per non parlare delle sottrazioni. «Tolgo cosa?» Era un incubo. Nessuno sembrava capire. Nessuno poteva capire. Tommaso, per la prima volta, si trovava da solo. Veramente. Si sentiva abbandonato, nessuno lo capiva: non i compagni, non la maestra, non la mamma e il papà. «Ma come fai a non capire?», «È facile», «Ma cosa ti hanno fatto questi numeri?», «In colonna, mettili in colonna», «Non ti stai impegnando». Eppure si impegnava, ce la metteva tutta. Si metteva a tavola, alla scrivania nella sua cameretta, sul divano, si sdraiava sul pavimento, usciva in giardino, in classe si avvicinava alla lavagna. Se lo portava in bagno quel quaderno a quadretti, a pranzo dalla nonna la domenica. Niente. Era arrivato a mettersi a letto con i compiti, per dare l’ultima occhiata prima di chiudere gli occhi, fiaba alternativa. Fiaba alternativa, già: un’alternativa, chissà, alla fiaba dell’unicorno magico che gli raccontava la mamma quando era piccolo piccolo, prima che imparasse a leggere. La storia di un cavallino che cospargeva con la polvere del suo corno i bambini che poi iniziavano a volare e salvavano la loro città dai cavalli grandi: brutti, neri, cattivi e senza corno – fondamentalmente erano queste le loro caratteristiche, erano personaggi piuttosto manichei. Una storiella davvero, ma che era diventata il suo feticcio. La voleva ogni sera, la mamma doveva leggergliela ogni sera se voleva avere pace. Per settimane, mesi. Poi una mattina in edicola, mentre comprava il giornale prima di andare a lavoro, la mamma aveva visto quell’unicorno di peluche. Un pupazzo azzurro, con la chioma e il corno bianco, gli occhi grandi e un arcobaleno sul fianco sinistro. Non aveva resistito: era una mamma distratta, per certi versi assente, per questo riusciva a stupire con le uscite dei suoi momenti migliori. E Tommaso quella sera, al rientro della mamma, si era veramente stupito. Senza nemmeno sapere cosa volesse dire in realtà stupirsi. Era talmente meravigliato che il suo feticcio ora aveva acquisito zampe e coda, aveva gli occhi, era morbido e lo poteva toccare. Lo poteva abbracciare la sera per addormentarsi. Lo trovava lì vicino quando apriva gli occhi, lo portava ovunque. Come avrebbe fatto qualche anno più tardi con quel quaderno che, certo, non gli dava lo stesso piacere. L’unicorno, che si chiamava Unicorno, era stato con lui per tanti anni, fino alla fine delle elementari almeno. Era stato la sua gioia e la sua consolazione, il suo compagno di giochi, il fratello che non aveva, la mamma quando non c’era. Non gli aveva mai chiesto niente, non ce n’era bisogno, gli bastava la sua presenza per sentirsi meglio. Non gli aveva mai chiesto niente, tranne quella volta. Quel pomeriggio in cui, davanti al terribile incubo del quaderno a quadretti aveva pianto, aveva chiesto al suo unicorno di aiutarlo, l’aveva inzuppato con le sue lacrime mentre lo stringeva forte, struggendosi come le signore delle telenovelas argentine che guardava la nonna il pomeriggio mentre era a casa sua. Era lì anche quel pomeriggio, la nonna era rapita dai tradimenti di Paca e Javier e non si era accorta di nulla. Poco male, non avrebbe comunque capito. Come invece aveva fatto Unicorno che, per l’unica volta nella storia del loro intenso rapporto, aveva parlato. Unicorno aveva guardato Tommaso nei suoi occhi lucidi e gli aveva dedicato parole tanto banali quanto sopravvalutate: «tu sei molto intelligente e hai molto talento». Gli aveva asciugato gli occhi con una zampa e poi era tornato immobile, con lo sguardo fisso e la sua chioma umida che si stava asciugando. Le lacrime di Tommaso si erano seccate, lasciandolo a fissare le gocce che schiarivano anche sulle pagine del quaderno, su quei numeri, quei più, quei meno che improvvisamente sembravano meno spaventosi, più chiari, meno grandi, più ordinati. Sembravano avere un senso. Sembrava chiaro, bastava dirlo. Bastava crederci, bastava che qualcun altro ci credesse e gli insegnasse a farlo: bastava che qualcuno colorasse il suo arcobaleno e che gli regalasse i pastelli per poterlo fare da solo, quando necessario. La carriera scolastica di Tommaso, da allora era stata in salita. O in discesa, se si guarda alle difficoltà. La matematica, a dire il vero, non era mai diventata la sua materia preferita. Ai numeri continuava a preferire le parole, i pastelli e gli arcobaleni da colorare, e anche con le parole. Parole di troppo anche, come quelle che un paio d’anni dopo aveva scritto in un tema farneticando di un bambino che andava molto bene a scuola perché il suo unicorno magico e parlante credeva in lui. Prevedibilmente, il tema aveva destato qualche sospetto nella maestra sulla salute mentale di Tommaso. I genitori erano stati convocati, la mamma aveva pensato all’unicorno feticcio, Tommaso si era vergognato da morire, anche con i compagni che avevano iniziato a prenderlo in giro. Il resto è prevedibile. Era finita, qualcosa si era rotto. A un certo punto non si ha più bisogno delle cose, delle persone, ci si stacca, si dimentica. I pomeriggi con Unicorno – complice la mamma che aveva cercato di sostituirlo anche invitando a casa della nonna, che ormai credeva di essere Paca, dei compagni – erano gradualmente passati di moda, non si dormiva nemmeno più abbracciati. All’inizio Unicorno era finito sulla scrivania, continuava a vegliare lo studio di Tommaso. Poi era volato su una mensola. Poi in un armadio. Poi chissà, era sparito come spariscono tante cose che ci sembravano vitali quando eravamo piccoli.
Tommaso era cresciuto, aveva finito le elementari, alle medie gli avevano consigliato di iscriversi al liceo classico e lui aveva seguito il consiglio. Gli piaceva leggere e anche scrivere, gli piaceva studiare e gli piaceva pensare che la matematica lì non sarebbe potuta tornare a disturbarlo più di tanto. Nonostante le velleità artistiche, era cresciuto come un ragazzo piuttosto concreto. Con la passione per la musica e per la fotografia, suonando il basso in un gruppo di paese e giocando a calcio con gli amici. Aveva lasciato un paio di ragazze e altre avevano ricambiato, qualche birra, la prima sigaretta che non aveva avuto seguito, un interrail post diploma di cui non ricordava quasi nulla e poi l’università. Tanto studio e tanta passione, aveva scelto la facoltà di Lettere ovviamente, senza ben sapere dove l’avrebbe portato. Aveva continuato a studiare e suonare, fotografare e giocare a calcio, si era trasferito, viveva con due amici e veramente non poteva negare di essersi divertito in quegli anni. Anche più di quanto faceva da piccolo con quell’unicorno che era lentamente sparito e al quale in realtà non aveva pensato per anni.
Dopo la prima laurea aveva continuato a studiare, si era iscritto alla specialistica e aveva iniziato a scrivere per un giornale locale. Scriveva di sport all’inizio, poi era passato alla cronaca e in poco tempo lavorava per una testata nazionale. Sulla sua scrivania in redazione c’erano poche cose, qualche feticcio – la mania dei feticci non era mai passata – e un paio di foto. Una con due colleghi e un’altra con due bambini e una giovane donna in spiaggia. Un’altra foto era appesa al muro, sulla sinistra della sua postazione, seminascosta tra i ritagli di giornale e i suoi pezzi migliori: era una foto del giorno della laurea, nemmeno troppo nitida, ma testimone della fatica di quei mesi. La foto di un ragazzo fin troppo bello per la sua aria impegnata, con un ciuffo di capelli scuri che gli cade davanti agli occhi per colpa dell’immancabile corona di alloro, camicia bianca e vestito nero, con la tesi di un colore che stona e distrae: troppo vistosa per quel ragazzo così serio, in tono però con il ciuffo. Una rilegatura di tessuto azzurro dove, facendo attenzione, si scorgono i caratteri neri del numero di matricola e il titolo del lavoro: «Simbologia dell’unicorno, piccolo e invincibile sin dal Medioevo».