“Stupida, stupida, stupida”.
Me lo sto ripetendo da circa mezz’ora, mentre cammino spaesata per delle strade che non ho mai visto prima d’ora.
“Stupida, stupida e ancora stupida!”.
Stupida non una, bensì tre volte: la prima perché ho voluto seguire il consiglio di Rachele senza riflettere (“Se hai troppi pensieri per la testa, vai a farti una lunga passeggiata, senza riflettere su dove vuoi andare”); la seconda perché ho lasciato libertà assoluta ai miei piedi senza tener conto del fatto che ho un senso dell’orientamento pessimo; la terza perché… be’, ho capito essere assorti nei propri pensieri, ma avrei dovuto almeno guardare dove stavo andando.
Ho camminato senza una meta per più di un’ora, immersa nel mio mondo, a riflettere su una sola, unica, insignificante frase.
Sei proprio una ragazza d’oro. Hai una discrezione ed una dolcezza che non ho mai trovato in nessun’altra prima d’ora.
Eloquente, vero? In effetti, no.
È stato Federico a dirmi queste parole, oggi. Sono innamorata di lui da… credo da quando ho capito che anche io ero abbastanza grande per potermi prendere una cotta per qualcuno. E ora, anni dopo, mi ritrovo ad essere la sua migliore amica. La sua migliore amica. Che fregatura, eh?
Oggi però è successo qualcosa. Stavamo discutendo di lui, di noi, dei suoi genitori che non lo capiscono e di sua sorella che non fa altro che prenderlo in giro. Io per la maggior parte del tempo ascoltavo, come al solito, parlavo solo quando era necessario e guardavo il modo in cui si tormentava i ricci scomposti. Poi, all’improvviso, senza motivo, lui mi ha preso per mano, mi ha sorriso e mi ha detto quella frase che mi rintrona da ore nella testa. Mi ha salutato e se ne è andato a casa senza aggiungere altro.
Sei proprio una ragazza d’oro.
Cosa vuol dire? Anche lui prova qualcosa per me? Devo chiederglielo o aspettare che lui chiarisca tutto, se c’è davvero qualcosa da chiarire?
Ci ho pensato tutto il pomeriggio senza però venire a capo di nulla. Ho camminato e camminato e camminato ed ora che è sceso il crepuscolo comincio ad avere freddo. Non so dove sono, non so dove andare.
Mi guardo attorno, ma non c’è assolutamente niente, solo.. un bar!
Che sollievo! Lì sapranno sicuramente indicarmi la strada del ritorno, o almeno dirmi di preciso dove mi trovo. Mi avvicino all’edificio, un piccolo locale con una discreta insegna di legno accanto alla porta, ed entro.
“Ti stavo aspettando”.
Una voce femminile dal timbro profondo mi apostrofa nel momento in cui poso il piede sul liso parquet del bar. Sussulto e mi guardo attorno per capire chi si è rivolto a me in quel modo.
Una giovane se ne sta in piedi appoggiata al bancone, con una sigaretta in una mano ed un bicchiere colmo di un liquido chiaro nell’altra. Non ci sono altri avventori, solo lei. Non si vede nemmeno il barista. Credo che si sia rivolta proprio a me, anche se posso giurare di non averla mai vista in vita mia: nel suo viso e nei suoi lineamenti marcati non c’è nulla che mi ricordi qualcuno che conosco, la sua voce, che ho sentito nel momento in cui sono entrata in quel bar, ha un colore ed un accento totalmente nuovi per me.
Esito per un istante, non so che dire. La giovane mi sta fissando con insistenza, come se aspettasse da me una risposta. Finalmente, dopo aver esalato voluttuosamente una boccata di fumo, si rivolge a me nuovamente con quella voce così particolare:
“Credevo che non saresti mai arrivata fino a qua. Sono ore che ti aspetto, temevo che avrei dovuto cominciare senza di te”. Rise brevemente e agitò il bicchiere che teneva in mano, facendo tintinnare il ghiaccio, che sembra ormai quasi sciolto.
“Scusi… ma… credo mi abbia scambiato per qualcun altro”.
Lei mi guarda lungamente per diversi istanti, prima di rispondermi. La sua bocca disegnata con il rossetto si allarga in un sorriso sgradevole, prima che lei ribadisca:
“No, per nulla. Aspettavo proprio te, Mia”.
Sobbalzo, sorpresa e terribilmente a disagio. Come fa a conoscere il mio nome?
“Chi… chi è lei?”, le chiedo.
“Io? Se vogliamo farla semplice senza troppe complicazioni, beh… io e te siamo la stessa persona”.
Non capisco. Non capisco proprio, cosa sta dicendo questa? Comincio ad infastidirmi: voglio dire, si rivolge a me come se mi conoscesse da una vita anche se non ci siamo mai incontrate prima di oggi e mi prende pure in giro?
“Non fare quella faccia e smettila di usare quell’insopportabile forma di cortesia”, sbotta lei prima che io possa esprimere il mio disappunto. “Siete sempre così, voi. Appena uno cerca di semplificare le cose, voi smaniate di conoscere quelle più complicate. Allora vorrà dire che ti accontenterò.
Io non sono una persona. Sono un Doppelgänger, il tuo Doppelgänger, se dobbiamo essere precise.
Non sono altro che un’altra proiezione della tua anima, la somma di tutto ciò che tu hai scelto di non essere. Perché è vero quello che in molti hanno già detto: ciò che definisce l’anima di ognuno sono le sue scelte; ma ti sei mai chiesta dove vanno tutte le strade che non hai intrapreso quando ti sei trovata di fronte a dei bivi? Sono tutte confluite in me, hanno creato ciò che ora sono io: un’altra te stessa, la somma di ciò che rimpiangi di aver lasciato alle tue spalle, quello che non hai scelto di essere”.
“E… perché non mi somigli? Fisicamente, intendo”, le chiedo a mezza voce. È l’unica domanda che riesco ad isolare dalla massa informe che mi turbina in testa. La giovane, il mio… doppio, diciamo, sbuffa un altro po’ di fumo in aria e asserisce seccamente:
“Perché ciò che è dato dalla somma di geni e combinazioni del tuo DNA è diverso da ciò che nasce in seguito alle tue scelte. Io solitamente non avrei una consistenza… solida, diciamo così: sono qualcosa di etereo ed invisibile agli occhi. Solo per stasera mi hanno concesso di assumere una forma visibile per poterti parlare. Mia”, si avvicina a me ed arriva a pochi centimetri dal mio viso. È più alta di me, più snella, più bella. Il suo eyeliner è stato disegnato in maniera impeccabile, così come le labbra rosso corallo. Riesco ad avvertire l’odore di sigarette al mentolo e alcol nel suo fiato, mi gira la testa. “Io sono venuta per aiutarti e darti un’altra possibilità. La possibilità di poter correggere gli errori che hai fatto in passato”.
“E… e come?”.
Lei mi sorride e nei suoi occhi scorgo un riflesso che non mi piace per niente. Ma aspetto quasi ipnotizzata la sua risposta, la desidero, la pretendo.
“La tua anima, quella che hai creato tu, ha l’aspetto di una timida ragazzina insicura, goffa, inibita e terribilmente petulante. È stato ciò che hai creato tu, ma sono sicura che, se avessi saputo che saresti diventata così, non avresti preso la stessa strada. Avresti voluto essere… quello che sono io ora”.
Guardo il mio doppio: è una giovane molto bella, disinibita e sicuramente molto sicura di sé, con un’autostima quasi visibile, come un’aura luminosa. Io di autostima non ne ho mai avuta. Ed è una dote che invidio molto nelle altre persone. Forse il mio affascinante doppio ha ragione: vorrei essere più sicura di me, più carismatica, più… come lei.
“Ti propongo un baratto”, continua quella che si è presentata come il mio Doppelgänger. “Scegli di essere me. Sceglimi e vedrai che riuscirai in tutto ciò in cui hai fallito finora. Anche Federico”, sobbalzo nel sentire il suo nome, “finalmente capirà che non vuoi essergli solo un’amica. Riuscirai a conquistarlo”.
Penso a come sarei se potessi essere almeno un poco più disinibita. Penso a Fede, a come mi guarderebbe se capisse che sono l’unica che gli vuole davvero bene, che sono innamorata di lui.
Aspetta un attimo.
Sono l’unica, sì, io sono l’unica che gli vuole davvero bene. Quella che ho scelto di essere e che lui ha definito “una ragazza d’oro”. Sono timida e goffa, ma anche discreta e dolce, così almeno mi ha detto stamattina. Se fossi stata un’ altra, Fede non mi avrebbe mai detto quelle parole che mi risuonano in testa da ore.
“Allora?”.
“Allora”, dico, “penso che… se tornassi indietro e dovessi scegliere di nuovo tra gli stessi bivi che ho incrociato della mia vita, ripercorrerei le stesse strade. Io… non ho bisogno di essere diversa”.
“No!”, grida il mio doppio, facendo cadere il bicchiere a terra e rompendolo in mille pezzi. “Non puoi rifiutarmi! Non sai cosa stai dicendo!”.
“Mi dispiace”, sussurro prima di girare i tacchi e andarmene, uscendo a testa alta dalla porta d’ingresso del bar.
Poi mi sveglio.
Ricordo poco del sogno che ho fatto: mi ero persa, volevo chiedere informazioni su dov’ero e… e dopo? Dopo non lo so, è tutto confuso. Mi giro dall’altro lato del letto e mi godo gli ultimi istanti di tepore sotto il piumone prima che mia madre venga a dirmi che è ora di svegliarsi.
“Beh, cara, non ci sei riuscita”.
“Smettila”. Una giovane molto bella e snella se ne sta appoggiata al bancone del bar con le mani nei capelli. Vorrebbe piangere, ma non lo fa: lei non piange mai. Lei è forte. “Ce l’avevo quasi fatta”, ringhia tra i denti.
“Ma non ce l’hai fatta e hai sprecato la tua unica occasione. Forza, torniamo a casa”.
Lei si alza in piedi sulle gambe che tremano visibilmente. Non vuole tornare da dove è venuta, nel luogo dove le persone gettano via ciò che decidono di non scegliere. Perché è quello che è lei, un ammasso di scelte non fatte, di strade non percorse, di decisioni mai prese.
Non ha scelta, però. Guarda la sua immagine allo specchio, consapevole che poi dovrà tornare nel mondo di ombre e nebbia dal quale proviene, e fa in modo di imprimersi quell’immagine nella mente. Sarebbe stata un’anima davvero bella. E affascinante.
Con un sospiro, si incammina verso la porta d’entrata ed esce dal locale per tornarsene in quella che, a malincuore, chiama casa.