Ho letto il racconto di Erik Baracani.
Questo è il suo racconto, che riposerà nel blog metafisico:
Da molto tempo non tornava a casa. Scese dal treno in una giornata d’ottobre, fosca come il giorno in cui si era allontanato, convinto di non fare più ritorno alle origini ed al passato. Era un’altra epoca. Non aveva più idea della gelida evanescenza della nebbia sui vestiti, del senso di pienezza quasi pesante che le foschie dei campi potevano dare ai polmoni, perché la sua vecchia città natale si amava soprattutto con la bruma e con il cielo plumbeo autunnale carico di speranze e del sonno della vita. Gli arrivò alle nari la puzza di carbonio dei freni del treno e, al momento di scendere osservò nuovamente l’intera lunghezza del vagone che percorreva un tragitto ferroviario fuori dal tempo. Su di esso si affacciavano paesini, borghi campagnoli dai nomi sepolti, storie di pianura e abitati di vecchi indigeni, il cui unico diversivo, nel monotono scorrere dei giorni, risultava essere il passaggio del convoglio di due carrozze diretto in città. La campagna s’intravedeva distante, al solito piatta, brulla e adusta in quell’autunno dal clima esitante, dalle tonalità giallastre e malariche. Il treno si era fermato completamente al secondo binario. L’atrio era vuoto, la biglietteria stava chiudendo. Percorse il viale verso il centro con l’unica valigia e l’impermeabile gli si impregnò dell’umido gocciolio della bruma. Ogni passo segnava un ricordo e gli si piantava nel costato come una lama di mille secoli e come un sé distante miriadi di anni luce. Arrivò in prossimità del castello e ne vide, intra le luci sfumate dell’imbrunire, la torre principale. La gente tutto intorno si affrettava verso le abitazioni o i caffè nella piazza della cattedrale per una sosta, un dolcetto o un dialogo, dopo la giornata di lavoro. Alcuni ragazzi pedalavano attraverso il largo corso centrale, fischiavano allegri, grati di vivere quel momento serale. Sedette nel bar con una piccola veranda aperta sul marciapiede, per poter respirare la nebbia a pieni polmoni e per sapere di avere avuto una casa, una volta, in quel luogo. Ordinò un caffè americano e ne odorò l’aroma acquoso prima di sorseggiarlo. Sorrise distrattamente alla cameriera pagando la consumazione, poi si alzò. Camminò fino al municipio percorrendo il piccolo tunnel che univa le due grandi piazze della città. Andò a sedersi su un gradino al lato opposto della grande scalinata del teatro, nel suo angolo, nel suo rifugio di adolescente. La nebbia stava gradatamente aumentando ed egli rimase immobile, perduto dentro i tanti, troppi anni di assenza.
“Resta il nulla” fu il suo pensiero mentre l’oscurità si fondeva alla foschia come un grande sudario, steso a portare requie e silenzio su edifici e uomini. Si incamminò al luogo dell’addio, del congedo definitivo. Percorse per un centinaio di metri il viale e, superato il Palazzo dei Diamanti, trovò sul lato destro la casa dell’infanzia di color mattone chiaro, la facciata di un palazzo antico, in mezzo ad altri, ricordavano il fasto di corti e glorie trascorse, morte ormai da tempo immemore.
“Sono mutato io, non la mia casa…” .
Si fermò davanti alla vetrina dove alcuni mazzi di anemoni incoronavano la figura di un angelo di cartapesta. Reggeva tra le mani un crisantemo bianco come la neve appena caduta. Aveva i colori incerti delle nebbie. Le ali spiegate ed un’espressione serena lo caratterizzavano; una figura portatrice del conforto celeste sulla terra; il viso di quel cherubino gli rammemorò lo sguardo del padre. Entrò dalla porta sovrastata da un gelsomino ancora fiorito, nonostante la stagione. Un campanello dal suono leggero frusciò al suo ingresso nella stanza illuminata da un camino sulla parete frontale e da alcune candele disposte sapientemente sopra il mobilio. Era un negozio arcaico con arredamenti lignei, profumava di vecchie tradizioni, così come la città. Emanava la maestosità dei ricordi antichi, tramandati lungo i nodi del tempo.
“Ciao fratello come stai?”esclamò, salutando la figura che stava recidendo con attenzione i cauli ad alcune rose eburnee con screziature carminie. L’uomo levò lo sguardo verso la porta e, sorpreso e commosso, lasciò i petali e le foglie a spargersi sul bancone da lavoro e si precipitò ad abbracciare il nuovo venuto. Non parlarono, per un lungo minuto.
“Da quanto tempo, sapevo saresti tornato, da quanto tempo… ”.
“Il tempo è solo una linea fratello”.
Intanto i fiori recisi sul tavolo da lavoro, cadendo senza intenzione, avevano assunto la forma di un rigo musicale con gli steli e i boccioli a comporre le note, la colonna sonora dell’incontro dei due fratelli ritrovatisi.
“Sempre un artista, vedo, anche quando lasci tutto al caso…”disse il nuovo venuto.
“Non sono io, è l’arte della terra”, il fiorista chiuse a chiave la porta d’ingresso. La luce delle candele tremolava e creava giochi di ombre sui vetri e sulle pareti. Andarono, con passi lemmi e rallentati, nel loro rifugio, la serra retrostante al negozio. L’ospite, vide il cortile, aveva i colori d’infanzia e gli alberi agli angoli fungevano sempre da guardiani secolari e silenti. Entrarono dalla porta a vetri: fu come andare a ritroso di molti giorni, di molti anni. Si diressero alle sedie a dondolo al centro della costruzione, disposte attorno ad un tripode in pietra nel quale ardeva già una fiamma. Sedettero. Il fioraio attaccò la pipa e aspirò quieto alcune boccate di fumo. “I gesti di papà”, pensò il fratello e posò la valigia dinanzi a sé.
“Che cosa hai fatto in tutti questi anni?” chiese poi in un soffio che sapeva di tabacco invecchiato, rompendo il silenzio.
“Risponderò con la battuta di un film… sono andato a letto presto, tu invece sei diventato un mago” e distrattamente si passò una mano sulla barba rada.
La nebbia intanto premeva sul tetto della serra e ovattava la conversazione, isolandola in una stanza irreale dello spazio elevando cerimonia solenne il loro incontro.
“Ho solo seguito il sogno di nostro padre, la via dei fiori e del loro linguaggio.”
“Un romantico illuso, si è legato a questo luogo, a una terra sempre uguale…”
“Che cosa non lo è mai? Il mondo ripete continuamente la medesima storia. La sua era qui, in questo piccolo tempio, fuori dal caos. Tu invece, hai trovato le risposte ai morsi dei tuoi tarli?”
“Ho smesso di credere a sogni e speranze quand’ero poco più di un bambino, ma nella realtà ho trovato solamente bugie” si appoggiò allo schienale, chinando il capo e traendo un sospiro.
Parlarono dunque del passato, di letteratura e dei conoscenti: i vivi, i dispersi e i transitati ed i morti. Tacquero sulle proprie vite. In fondo non c’era molto che dovessero sapere l’uno dell’altro e di cui non fossero già a conoscenza. Il fiorista, terminato di fumare, levatosi dalla poltrona prese da un tabernacolo di pietra sotto al tripode una bottiglia di liquore bicchieri. Li riempì e avvicinò una terza seggiola a dondolo, rimasta fino a quel momento discosta nell’angolo. Dai colori tremolanti dei fiori e dalla luce della fiamma videro entrambi una bianca sembianza prendere forma e porsi su di essa. Come sacerdoti consacrarono il momento davanti all’improvvisato ostensorio: il legame di uomini forgiati di terra, sangue e ricordo. Poi l’ospite ruppe il silenzio.
“Esiste nelle campagne a nord della città, un muro sbrecciato, di cui resta una parte minima. Lo si vede passando col treno e mi sono chiesto più volte quale significato possa avere. Mi sono interrogato sulla natura di quel muro fino a comprendere, in tutto questo tempo ho trovato una risposta solo a questo… il muro nel nulla sono io, fratello”. Tirò a sé la valigia e indicandola: “Potrete vivere tranquilli per molti anni, tu e la tua famiglia”, ergendosi in piedi respirò a fondo i profumi e gli aromi delle piante, dei fiori e della nebbia. Con gli occhi chiusi e le palpebre quasi serrate, vagò con la mente, come a volersi imprimere l’immagine di casa nei pensieri.
“Che significa? Non tornerai?” chiese preoccupato il fratello ancora seduto.
“Questa volta no, non più…”, diede un ultimo sguardo al fantasma paterno, posandosi una mano sul cuore in segno di saluto. Il fiorista si alzò, gli andò accanto e gli strinse con la mano una spalla, amorevolmente. Tornarono all’ingresso del negozio. Si fermarono sulla porta accanto alla vetrina.
“Ricordi il significato degli anemoni?”.
“Addio per sempre” rispose il fiorista. Quando si voltò il fratello era già svanito nella nebbia.
Guardò Ferrara, i palazzi di corso Ercole I d’Este immersi in una marea candida, i profili contorni di tante storie creavano una via da percorrere, rimandando l’eco di rumori indistinti ed il canto dei secoli. Chiuse la porta nuovamente e ritornò a curare le rose.
La mattina seguente, al cadere della bruma dissipata dalla luce trepida di una nuova alba rosata ed indaco, si diresse a nord, guidò per le campagne, bagnate da gocce di brina disciolta e, in un tratto vicino alle rotaie che attraversavano i campi, trovò l’oggetto della sua ricerca. Si avvicinò tenendo il figlio per mano e si portò davanti al muro. Era come lo aveva descritto il fratello.
“Perché siamo qui papà?” chiese il bimbo.
“Tutto ciò che vive possiede un’anima ed una storia figliolo, sta a noi trovarne i segni”disse enigmaticamente al bimbo.
Tastò lentamente la sommità dei mattoni sbrecciati, posò la mano sopra un anemone bianco, bagnato di rugiada e di nebbia.
“Ricordi cosa significhi, nel mito?” domandò al bimbo, mostrandoglielo.
“Addio per sempre e speranza di un ritorno. È il fiore del vento…”
“Hai capito ora perché siamo venuti qui?”
Il bambino annuì:“Fino a quando esisteranno i fiori con il loro linguaggio, assieme agli addii nasceranno anche le speranze del ritorno di chi se ne è andato. I petali non cadono invano, in ogni giorno giace un significato, me lo hai insegnato tu…”.
“Se si perde la via…”
“L’auriga dell’anima farà ritrovare la strada…” rispose il figlio sicuro.
Deposero un secondo anemone sopra il muro, intrecciato al primo ed una corrente d’aria nordica riportò al loro udito il suono di un distante addio; la voce del fiore del vento rimandò, prima di perdersi, un ricordo al cuore dell’uomo che, piano, commuovendosi, strinse la spalla del figlioletto…