Mi ero svegliata presto quella mattina, prestissimo. Avevo chiesto due ore di permesso al lavoro e in quelle due ore avrei dovuto fare tutto ciò che si può fare solo al mattino. Che poi, mi chiedevo, che senso ha che l’ufficio postale apra solo al mattino? Io lavoro al mattino, alle 8.30 sono già seduta alla mia scrivania. Le analisi del sangue vanno fatte a digiuno, ok, questo è più comprensibile: ma l’ufficio postale? Non è che uno deva andarci a digiuno all’ufficio postale. Mi ero svegliata presto, troppo presto per le mie abitudini. Alle 7 ero già in ospedale, a digiuno appunto, pronta per farmi bucare un braccio: e io odio farmi bucare le braccia, odio gli aghi, il sangue. Un prelievo forzato dal mio medico, solo per uno svenimento: ho un medico fin troppo apprensivo, di quelli che per il mal di testa di una sera ti prescrivono una tac. «E tu lo ascolti?», vi chiederete. Io lo ascolto, in fondo è il mio medico e quando il medico paventa una mai sospettata anomalia del ritmo cardiaco a una semi ipocondriaca con il timore del sangue, la semi ipocondriaca lo ascolta. Da un paio di settimane ormai viaggiavo per l’ospedale come fosse casa mia, dopo l’elettrocardiogramma e il test da sforzo, dopo il prelievo, mi aspettavano nell’arco di un mese altre quattro visite specialistiche. Quella del 4 dicembre era la più difficile per me, la più banale e innocua per molti, una sfida contro il rischio di svenire di nuovo solo per la vista del sangue nel mio caso. Timorosa di trovarmi in coda a mille persone, o di perdere i sensi, avevo chiesto due ore di permesso al mio capo. Dovevo passare anche in posta da giorni: nella migliore delle ipotesi, senza sincopi e lunghe file, sarei riuscita a pagare la multa per divieto di sosta che dimorava sul tavolino del mio salotto da quasi 20 giorni. La mia apprensione aveva fatto in modo che davanti a me, pronte ad arrotolare una manica della maglia, avessi solo una dozzina di persone: il migliore dei casi si era realizzato.
Monica, 34 anni, single con una neonata passione per lo zumba.
È tardi, è tardi, è tardi, continuavo a ripetermi, non arriverò mai in tempo. Ora o mai più però: è l’ultimo giorno utile e se non riesco ad andare in posta con quel bollettino stamattina, addio gita. E devo andare prima del pilates, non rinuncio al pilates. Mi ero svegliata al solito orario la mattina del 4. Un po’ di stretching, colazione e poi via a preparare borse e controllare zaini. La borsa di mio marito a cui davo sempre una sistemata, ogni mattina, per verificare che non mancasse niente della piccola farmacia che si ostinava a portarsi al lavoro. Pronta. Lo zaino della mia bambina, anche se bambina ormai non lo era quasi più, le cose erano cambiate in seconda media: per me restava una bambina e le sistemavo lo zaino rosa della Eastpak ogni mattina, più che altro perché non avesse scuse una volta a scuola. Anche se, precisa e diligente, di scuse non ne aveva certo bisogno: per me era più che altro un’abitudine presa dal primo giorno delle elementari e mi piaceva pensare che la sua attenzione l’avesse – almeno in parte – imparata da me. Lo zaino di mio figlio, lo ammetto, lo setacciavo di nascosto in cerca di sigarette, ma anche per dargli una pulita ogni tanto, per togliere dal fondo i sacchetti e le carte delle merendine che sbranava durante le lezioni. Cercavo anche qualche verifica andata male, lo ammetto, anche se raramente ne trovavo: pasticcione, creativo, anticonformista, disordinato, ma certo era onesto, studiava, e a scuola – tra una polemica e l’altra – era amato da tutti i professori. A fine marzo lo aspettava l’ultimo viaggio d’istruzione della sua carriera da liceale, il quinto. Prima degli esami, prima della facoltà di architettura che aveva scelto – col nostro consenso – di frequentare. Il bollettino per il viaggio a Praga era da pagare entro il 4 dicembre, già: per fortuna avevo il vizio di controllare il fondo dello zaino. Per fortuna.
Daniela, 44 anni, casalinga sposata con due figli.
Amo il 4 dicembre, lo amo più di qualsiasi altro 4 del mese. Anche se amo il 4 di ogni mese. Io il 4 ritiro la pensione, e quella di dicembre la spendo tutta – tutta – in regali per i miei nipoti. Non prendetemi per una persona venale, non lo sono davvero. Mi piace prendere ciò che mi spetta, ma del 4 di ogni mese amo soprattutto il rituale. Amo svegliarmi un po’ prima del solito, scendere in cucina e trovare comunque mia moglie – la stessa da 47 anni – che mi porge il caffè. Poco zucchero, due biscotti. Amo chiacchierare con lei, bisticciare un po’. Lo facciamo ogni mattina, ma il giorno in cui ritiro la pensione mi sveglio prima per prenderla con calma e godermi ogni singolo momento della mattinata. Amo infilare la giacca e il cappello quando è inverno, prendere una strada diversa dalla solita di ogni mattina perché devo andare in posta. Amo fermarmi al bar, non la solita osteria – che amo anche di più, ma non per dodici giorni l’anno, il 4 di ogni mese -, bere al banco un altro caffè, stavolta decaffeinato, e sfogliare la Gazzetta. Amo uscire da quel bar, salutare i compaesani di sempre, fermarmi in edicola e comprare il Corriere, da portare sotto braccio fino all’ufficio postale per leggerlo nella lunga, lunga attesa. Anche se in realtà, in anni e anni di rituale, mi sarà capitato un paio di volte di riuscire ad aprirlo. Amo comprarlo, un po’ per scaramanzia: perché poi, una volta in coda, c’è da chiacchierare, condividere, ridere, vedere i giovani che sbuffano e gli anziani come me che si divertono, raccontano, ricordano. Quel 4 dicembre ero arrivato un po’ più tardi del solito in posta, mezz’oretta, forse meno. Me l’ero presa comoda, nessuna fretta. Avevo ascoltato i pettegolezzi di mia moglie qualche minuto in più, ancora per qualche minuto mi ero riscaldato al bar, dove la barista mi interrogava sull’andamento scolastico di mia nipote, la più grande dei tre, che da pochi mesi aveva iniziato l’università e si era trasferita. Qualche minuto in più ed ero uscito felice già dal bar, fiero di aver raccontato del mio contributo al finanziamento degli studi della mia nipotina. Qualche minuto e ripartivo col sorriso alla volta della posta.
Angelo, 76 anni, pensionato e grande giocatore di bocce.
Stamattina arriverò tardi a lezione, magari ne salto un paio. Vediamo, forse le salto tutte e quando arrivo mi piazzo in biblioteca a studiare. Vediamo. Ho promesso a Will che avrebbe avuto i suoi panettoni a inizio dicembre e, cascasse il mondo, li avrà. Mi manca Will, non è troppo virile ammetterlo, ma mi manca. Mi manca la sua innata capacità di bere a qualsiasi ora e non ubriacarsi mai, almeno non prima di me. Mi mancano le sue cene orribili, la sua cucina irlandese cucinata da un irlandese che non sapeva cucinare. Mi manca il suo disordine, la sua incapacità di arrivare in orario, le sue risate esplosive. La sua lista di dieci parole della lingua italiana che non sarebbe mai riuscito ad imparare – nocciola, per dire, tra le altre. Abbiamo vissuto insieme sette mesi lo scorso anno, con Marco e suo fratello Davide, ma lui era il mio compagno di stanza. Studente di economia in Erasums, un esame dato in sei mesi, tante lezioni saltate, una dozzina di cuori spezzati. Quasi aveva spezzato anche il mio. Era arrivato a gennaio e io mi ero portato da qui un panettone artigianale, di una pasticceria del paese. Fantastico, nessuna definizione poteva descriverlo meglio. Will l’aveva assaggiato durante la cena di benvenuto ed era quasi svenuto. L’irlandese. «L’anno scorso lo voglio per Natale, ok?». «L’anno prossimo», l’avevamo corretto. L’avrai. I primi panettoni della pasticceria, li ho visti in vetrina un paio di giorni fa e ho capito che era il momento. Vorrei andare a trovarlo, magari ci vado in primavera. Natale no, non è il caso: arrivare a Dublino con i panettoni sottobraccio sarebbe romantico, ma non è il caso. Mia mamma non capirebbe la mia assenza al pranzo con i parenti, nemmeno le nonne temo. Glieli mando, i primi: gusto tradizionale, uvetta e canditi. Dublino questo Natale scoprirà il panettone, quello vero. E me la godo questa mattina a casa, lontano dalle lezioni, dall’università, mi godo il mio paese. Passeggio con la mia borsa color crema – giustamente – della pasticceria, entro nel mio bar preferito, quello dove facevo mille colazioni anziché entrare a scuola, al liceo. Entro e poco è cambiato, ci sono ancora le signore del cappuccio, sono le stesse, forse un paio in meno: in fondo non sono passati molti anni. Ci sono dei ragazzi nel tavolo più nascosto, un gruppetto: alcuni con i libri aperti. Ma va? Vorrei andare da loro e dire: ma va? Godetevela ragazzi, che poi non torna più. Divertitevi, studiate il giusto e poi uscite, state al bar con gli amici, leggete, amate, imparate. Ubriacatevi, ubriacatevi che ogni tanto fa bene. Godetevela, studiate il giusto e imparate più che potete. Più che potete. Potete scegliere, fatelo col cuore. Vorrei andare da loro e dire questo, mi immagino per un attimo avvicinarmi a questi sconosciuti con la mia borsa di panettoni, immagino il loro stupore, simile a quello che avrei manifestato io qualche anno fa davanti a un pazzo spettinato con la sciarpa che beve un cappuccio e mi si avvicina per illuminarmi il cammino. Vorrei sedermi con loro e tranquillizzarli, e svegliarli. Mi alzo, sto per andare da loro. Poi no. Sorrido tra me, scuoto la testa, meglio che vada. Ci sarà tempo. Li guardo ancora una volta, pago il mio cappuccio ed esco. Meglio che vada, la posta sarà piena.
Claudio, 25 anni, studente di Lettere con un paio di rimpianti.
La strage si è consumata verso le 9.30 del mattino nell’ufficio postale del comune lombardo di San Martino. Una donna di 51 anni, Elena, ex impiegata delle poste conosciuta da tutti in paese, ha aperto il fuoco contro i colleghi senza conseguenze. Non c’è stato scampo invece per i quattro clienti che venivano serviti al momento della sparatoria: la donna li ha colpiti prima di puntare la pistola alla tempia e spararsi.
Ancora da chiarire il movente della strage. Madre di due figlie e, sembra, felicemente sposata, la donna era stata costretta ad abbandonare il lavoro poco meno di tre anni fa, in seguito ad un esaurimento nervoso. Da allora, raccontano i compaesani, si era occupata della famiglia, dedicandosi soprattutto al ruolo di nonna della piccola Sara. «Tanto siamo già tutti morti, tanto siamo già tutti morti», sembrano essere state le parole urlate dalla donna di prima di aprire il fuoco: i testimoni, fuggiti durante il raptus e ancora sotto shock, hanno raccontato ai carabinieri accorsi sul posto di una scena lontana dalla realtà e più simile alla sequenza di un poliziesco americano. Regolarmente registrata invece, la pistola da cui sono partiti i nove colpi: una calibro 22 sottratta al marito, probabilmente la mattina stessa.
Corriere del 5 dicembre.