Cosa hanno in comune Alessia Gazzola, medico legale di Messina classe 1982, e Koethi Zan, americana delll’Alabama, avvocato appena sopra la quarantina e in questi giorni in visita per la prima volta nel nostro Paese? Poco pare, guardando alle origini e al vissuto; poco che diventa subito molto quando entra in gioco la passione: quella per la lettura che, nel tempo libero – ma quale tempo libero? – si è trasformata in voglia di confrontarsi con la scrittura.
Le ossa della principessa è il quarto romanzo della Gazzola, che torna a divertire e incuriosire i lettori con Alice Allevi, il medico legale – come lei – pasticcione e sentimentalmente ingarbugliato che la scrittrice ama definire «una Key Scarpetta con le debolezze di Bridget Jones». Dopo – titolo originale The Never List – è invece l’opera prima delle Zan, un racconto di ricordi, della lotta di una donna per superare il vuoto lasciato dalla prigionia vissuta anni prima con altre tre donne, che andrà a cercare per mettere insieme i tasselli indispensabili per dare di nuovo un senso alla sua vita, per riprovare quelle sensazioni ed elaborarle, per poter crescere.
Editi da Longanesi, i due romanzi usciti tra dicembre e gennaio sono stati presentati dalle due autrici domenica durante il bloody brunch offerto dalla casa editrice milanese ad una trentina di blogger e giornalisti curiosi di scoprire due donne così diverse che, in modi e tempi altrettanto dissimili, si sono approcciate alla scrittura di quella crime-fiction tradizionalmente riservata al genere maschile: quanto a pubblico, protagonisti e autori. Le scopriamo e ci piacciono, sono schiette e sorridenti, donne vere che mettono insieme il talento e parte del loro lavoro – quello per cui, diciamo, hanno studiato – e riescono a creare figure femminili forti e protagoniste. Donne invece, Alessia e Koethi, che non lasciano la famiglia e si portano a Milano il marito e la bimba di pochi mesi, o la primogenita undicenne e lettrice accanita alla quale per ora non è permesso avvicinarsi al libro della mamma.
Che ne pensate del fenomeno degli ultimi anni: il boom delle scrittrici donne di crime-fiction?
K: Chi scrive, in genere non pensa a un genere: scrive e basta. Per me almeno è così e addentrarmi in questo genere è stato naturale: fin da piccole, noi donne siamo più esposte alla violenza, a partire dalle piccole discriminazioni e dalle continue raccomandazioni dei genitori. Le storie di detective uomini poi hanno protagonisti fascinosi, spesso pieni di rancore, possono attrarre anche il pubblico femminile, ma questo difficilmente riesce ad immedesimarsi: i miei personaggi sono donne che da vittime risorgono e ribaltano la situazione. Sono Donne.
A: Credo semplicemente che il lettore abbia recentemente scoperto di amare anche la maniera femminile di rappresentare il male, una maniera decisamente rassicurante. Per me, da lettrice, era così: non per niente nel mio studio ho una foto di quella che chiamo zia Agatha (Christie) che osservo e imploro nei momenti di panico da scrittura.
Si tratta quindi soprattutto di una rivisitazione al femminile delle fragilità dei protagonisti?
K: I personaggi più memorabili della letteratura sono quelli che hanno lottato per superare le proprie fragilità: è difficile pensare al protagonista di un romanzo che non soffra o non si senta almeno un po’ inadeguato. Dal protagonista uomo di una crime story ci si aspetta una corazza, lo sfogo dell’alcolismo, la solitudine, il rifiuto della vita sociale: la donna invece è più umana, più aperta nella sua sofferenza, è più disposta a raccontarla.
A: Attribuire delle fragilità ai protagonisti è l’unico modo per permettere ai lettori di immedesimarsi, di prendere in simpatia il personaggio. Alice, la mia protagonista, è una pasticciona, commette errori di continuo, con gli uomini e sul lavoro: piace soprattutto per questo e io sono la prima a sentirmi un po’ come lei.
Onestamente, riuscite a dormire mentre scrivete di questi fatti?
K: Direi che scrivere di cose tanto terribili mi aiuta a dormire, mi tranquillizza. Ho scoperto che in questo modo riesco ad esorcizzare, almeno in parte, le mie paure: la scrittura si è rivelata in questo senso un’esperienza catartica, anche perché questo mondo verosimile in realtà me lo creo io. Chiaro che più rimugino e mi ossessiono, più instillo la paura in mia figlia.
A: Io dormo benissimo (ride), l’unica che riesca a svegliarmi la notte è la mia bambina che piange!
Cosa rappresentano le vostre protagoniste delle donne di oggi?
K: Le mie sono donne piene di nevrosi, portano a galla l’aspetto più sommerso dei nostri caratteri, delle nostre fragilità. Sono donne che lottano, che a un certo punto decidono di prendere in mano la loro vita e affrontare il passato e il ricordo. Sono donne vere.
A: Alice è molto sensibile, intelligente, dedicata. Ha un grande cuore, si appassiona, si lascia coinvolgere e si fa anche fregare. Alice è tutto questo, ma porta con disinvoltura l’aspetto più autoironico delle donne, si prende in giro e pasticcia sempre. Il ricordo, per legarmi alle parole di Koethi, in lei è piacevole.
A questo proposito: che rapporto avete voi scrittrici con il ricordo?
K: Ho appena riletto 1984 di Orwell sul tema della memoria e ora più che mia mi rendo conto di quanto spesso diamo per scontato i ricordi, le sensazioni, le emozioni. I ricordi sono tutto quello che sei, quello che hai, e sono la base per quello che potrai diventare. Nel mio libro, il ricordo è forse il vero protagonista: vuole essere una terapia, un modo per rivivere luoghi e momenti, per provare nuove sensazioni ed elaborare le esperienze passate.
A: La memoria è preziosa per ogni essere umano, è qualcosa di affascinante che va allenato e curato. Ho una buona memoria, ma temo sempre di dimenticare qualcosa o di poter tralasciare particolari che a lungo andare si rivelerebbero essenziali. Per questo prendo sempre appunti: non un diario, solo appunti, scrivo quel che mi capita, ma soprattutto i pensieri che mi passano per la testa. Al momento potrebbero sembrarmi irrilevanti, ma spesso mi è successo di rivalutare delle situazioni rileggendoli e di trarne insegnamento o anche materiale per le vicende di Alice.
Avvocato e medico legale, avete a che fare ogni giorno con storie di morte e violenza: che rapporto avete con il crimine reale?
K: A prescindere dal mio lavoro, seguo i fatti di cronaca anche per alimentare la mia ossessione – diciamo, così – di sapere dei sopravvissuti. Ho seguito con interesse per anni le vicende di ragazze rapite e abusate, mi interessava capirle, capire la loro vita durante e dopo la reclusione.
A: Col crimine ho scelto di averci a che fare per lavoro in qualche modo, è vero. Mi spaventa però, all’idea della morte non ci si abitua mai, ma il pensiero è inevitabile. Ho bisogno di rassicurazione su questo fronte e per questo ho scelto di scrivere storie buffe intorno alla morte, storie di persone che comunque vanno avanti. Senza particolari macabri o risvolti psicologici eccessivamente profondi.