Dovunque io vada porto il Brasile con me, purtroppo non porto con me la farina di manioca, ogni giorno mi manca, a pranzo e a cena.
Si dice che una delle doti più apprezzate in uno scrittore sia la capacità di stare al passo coi tempi. Di raccontare il mondo com’è, rendere omaggio alle proprie origini, farsi interprete di quella particolare realtà in cui gli è toccato di nascere. Per provare, sommessamente e con cautela, anche a cambiare qualcosa. Non tutti gli scrittori ci riescono; alcuni preferiscono fuggire il reale per rifugiarsi in un mondo fantastico. Ma non Jorge Amado. Lui, in questo lavoro di rispecchiamento e interpretazione della realtà era un maestro. Allacciato alla sua terra immensa da un legame indissolubile e feroce, quasi dolente, Jorge Amado ha cantato le sorti di un Brasile in fermento, terra nuova in lotta per la ricerca della propria identità, generando – perché no – anche quel vento di cambiamento che ha in seguito trasfigurato il volto del paese.
Io dico no quando tutti, in coro, dicono sì. Questo è il mio impegno.
Rivoluzionario per diritto di sangue, Jorge Amado vede la luce il 10 agosto 1912 a Ferradas, Itabuna, nella fazenda Auricidia nello stato di Bahia. Figlio di un grande proprietario terriero produttore di cacao, il piccolo Jorge è testimone durante l’infanzia delle grandi battaglie per il possesso della terra. La schiavitù, formalmente abolita alla fine del 1800, persisteva nelle forme più subdole del latifondismo e del lavoro sottopagato, attraverso un’Apartheid silente che teneva rigorosamente separata la bigotta borghesia bianca, di origine europea, dalla popolazione indigena, mulatta e affamata. In questo contesto storico-sociale si forma la mente del bambino Jorge, intollerante ai soprusi e alle ingiustizie. Il rifiuto per qualunque forma di ipocrisia trova terreno fertile nell’animo ribelle del giovane, e ben presto trova sfogo privilegiato nella letteratura.
Le prime esperienze letterarie risalgono agli anni del ginnasio a Salvador di Bahia, quelli del giornalino “A Luneta”. Gli anni dell’università in scienze giuridiche a Rio de Janeiro sono decisivi per la crescita personale e letteraria di Amado: scrivere per il giornale della scuola non basta più. Amado è pronto a cimentarsi con il suo primo romanzo. “Il carnevale di Bahia“, scritto sull’onda della rivoluzione del ’30, appare nel ’31 come romanzo di denuncia sociale, e vede un appena ventenne Amado prendere posizione nell’ambiente letterario come scrittore socialmente impegnato, in netto contrasto con la letteratura ufficiale dell’epoca, obsoleta, ben lontana dal realismo e dai problemi della gente, e priva di qualunque guizzo di rinnovamento.
Seguono subito dopo “Cacao” (1933) e “Sudore” (1934), sempre sulla stessa scia dell’impegno sociale che contraddistinguerà l’opera e tutta la vita dello scrittore, segnandone per sempre le tappe, dalla militanza politica nel partito Comunista prima, agli arresti e all’esilio poi, ma anche agli indiscussi successi letterari e ai prestigiosi premi ricevuti. La vera consacrazione letteraria arriva con “Jubiabá” (1935), dal nome del protagonista, stregone nero di Bahia la cui figura fa da sfondo alla storia d’amore tra Balduino e Lindinalva, lui nero, lei bianca. Un connubio che scandalizza l’opinione pubblica moralista e benpensante, trasformando il romanzo in un vero e proprio caso letterario capace di sconvolgere l’intero paese, ma anche di gettare un seme di speranza. Ma il Brasile non è ancora pronto.
La strada di Amado invece è segnata: la sua ferma opposizione al regime nazista di Plinio Salgado gli vale l’esilio prima in Argentino, poi in Uruguay. Qui, nel 1942, inizia la stesura del terzo romanzo del ciclo iniziato con “Mar Morto” e “Capitani della spiaggia” (1936), “Il cavaliere della speranza” (1942), storia delle gesta di Luis Carlos Pretes, politico comunista brasiliano che fu un vero e proprio messaggero della rivoluzione. Con “Terra del finimondo“, la sua militanza comunista viene completamente svelata. Un affronto sociale che lo porta più volte in carcere e poi ancora in esilio, questa volta in Europa, prima a Parigi e poi per tre anni in Russia, dove, a fronte del suo impegno socio-politico, gli viene assegnato il premio Stalin. Nel ’54 esce “I sotterranei della libertà“, storia delle lotte del partito comunista brasiliano e insieme esplicita critica ai regimi di destra accusati di persecuzione.
Sono gli anni difficili dell’esilio forzato camuffato con lunghi viaggi, delle gioie e delle sofferenze private, del matrimonio con la scrittrice Zelia Gattai e della paternità. Il ritorno in patria, nel 1955, lo vede, invecchiato, perdere di mordente e allontanarsi, stanco, dall’estremismo delle sue posizioni politiche per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Così, nel 1958, Amado sorprende ancora una volta tutti con l’uscita di “Gabriella, garofano e cannella“, romanzo sulle lotte dei fazeinderos vissute durante l’infanzia che fa emergere con prepotenza, attraverso il personaggio di Gabriela, una nuova e scandalosa immagine di donna “femminista”, libera da qualunque forma di sottomissione al maschio, che lotta per amore e per affermare il suo diritto all’amore.
A vent’anni di distanza dallo scandalo di “Jubiabá”, Amado si dimostra ancora una volta un precursore dei tempi, capace di sconvolgere il pubblico remando controcorrente, verso una rivoluzione dei costumi imminente ma non ancora visibile all’orizzonte di un Brasile complesso, allo stesso tempo immobile e fremente, meticcio ma classista, allegro e insieme colmo di quella intraducibile saudade che è la tristezza che attanaglia il cuore quando all’improvviso diventa consapevole dell’effimera consistenza della vita. Proprio come al termine dei festeggiamenti del Carnevale, rito religioso e magico, gioioso e amaro, sincretico e scaramantico, che esorcizza paure e fantasmi, purifica gli animi, e che sempre lascia in bocca un gusto amaro, come di una disfatta. La stessa sensazione che, quarant’anni dopo, il 6 agosto del 2001, ha riempito l’animo di un popolo intento a piangere la morte del suo più grande cantore.