Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Dopo giorni di degrado, settimane di attesa, mesi passati tra il letto e la dialisi, anni passati al fianco di mia madre, tutta una vita passata – in realtà – da sola, stamattina alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Da sola, perché tutti qui in realtà avevano qualcos’altro, avevano qualcun altro. Sono nata una mattina di agosto di metà anni Cinquanta, prima figlia di due genitori che mi hanno voluto, a modo loro, molto bene. A modo loro: con la distrazione e le battute mio padre, con un’ironia che mi faceva piangere e urlare, e offendere; standomi sempre vicina mia madre, sempre davvero, nonostante un negozio da salvare da mio padre, nonostante la sua incapacità di esprimere a parole il bene che mi voleva. Nonostante mia sorella, nata due anni più tardi e costretta, suo malgrado, a servire la mamma, cioè il negozio, cioè me. Costretta fin da piccola ad impararsi commessa, anche se era timida e stare tra la gente non le piaceva; costretta ad essere la prima a scuola, per non dare un altro problema alla mamma, che aveva già quel debito di negozio, che aveva già me; costretta a dire sempre di sì, perché non poteva fare altro; costretta a rinunciare, ad essere seconda a me, sempre, che mi gonfiavo per non mostrare i miei limiti, che mi lodavo e la facevo sentire seconda, perché lì doveva stare. Costretta, a vent’anni, a rinunciare alla facoltà di Medicina dove era iscritta da un anno, dove già trionfava, nonostante lo svenimento inevitabile alla vista del sangue che la accompagna ancora. Costretta a sentirsi costretta, dalla mamma, dal negozio, da me, tanto da dover giustificare col dovere ogni momento della sua giornata, che ancora oggi il piacere non lo può contemplare.
Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Chiunque mi abbia conosciuto, chiunque mi sia stato – suo malgrado – vicino, se l’è chiesto almeno un centinaio di volte se l’avessi un cuore. Molti, anzi, credo non se lo siano nemmeno chiesto: la risposta era ovvia, negativa. Fredda e impassibile, insensibile, distante, egocentrica ed egoista, ingombrante, primadonna, arrogante, incapace di ascoltare, di riflettere, di pensare, venale e possessiva, tronfia, cattiva. Cattiva? Ma esistono veramente le persone cattive? Esistono persone che si svegliano un bel mattino, si stiracchiano sedute sul letto, sbadigliano e si dicono: oggi farò del male a qualcuno, senza motivo, solo perché posso farlo, solo perché mi va. Che fanno poi questi cattivi? Si fanno prendere la mano e continuano, giorno dopo giorno, a stiracchiarsi al mattino per poi prendere la mira, o sparare nel mucchio, durante la giornata? Funziona così? Il male è gratuito come dovrebbe essere il bene? Se tanto mi da tanto. Eppure no, l’essere umano non è fatto per produrre il male. Lo subisce, lo percepisce, lo impara. A volte, col male, dimentica il bene. E allora diventa cattivo, sembra cattivo. In realtà sta male: sta male perché qualcuno ha preso la mira e ha sparato su di lui. Qualcuno, una persona, la Natura, il Destino. Ci credete al Destino? Io sì, voglio crederci. Voglio credere che in fondo, dopo un largo, larghissimo giro, il male che non volevo fare, porterà un po’ di bene.
Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Sono venuta al mondo una mattina d’agosto di metà anni Cinquanta, forse però non sono mai nata per davvero. Qualcuno quel giorno deve aver preso la mira, o forse ha solo sparato nel mucchio. Qualcuno, non un uomo, non la Natura: qualcuno, il Destino. Il Destino quella mattina d’agosto ha aperto gli occhi, si è seduto sul letto e stiracchiandosi è stato attraversato da un lampo: prendi la mira, spara nel mucchio, fai quel che credi. Fallo. Boom. Il forcipe del medico che mi faceva nascere ha preso la mira, boom. Un nervo?. Centrato, preso. Fatto. Per mesi nessuno si è accorto di nulla, ero una bambina normale. Capricciosa, normale. Poi avrei dovuto iniziare a camminare, avrei dovuto. Niente, non stavo in piedi. Mamma mi metteva sulle gambe e io mi sedevo. O cadevo. Lesionato, la diagnosi. Iniziano anni di ospedali, operazioni. Fisioterapia, insulti. Anni scolastici persi, sguardi di compassione: frasi false, le loro, risposte cattive, le mie. Tanto me lo potevo permettere. Partivo da una condizione di svantaggio e, col tempo, ho imparato a ricavarne il maggior guadagno possibile. Anche se era poco, il guadagno. E allora lei era una stronza, lui un alcolizzato, quelli avevano i debiti, queste erano troppo facili. Quella non era in grado, questo non era degno di me. Degno di cosa poi? Di passare la vita con me che camminavo a fatica e, negli anni, avevo atrofizzato il cuore insieme alle gambe? Non era degno, io dovevo far credere questo agli altri. A quelli che mi credevano quando dicevo che qualcuno aveva deciso di crearmi con un difetto, altrimenti sarei stata perfetta. Perfetta.
Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Quasi non ci ho fatto caso, abituata alla morte, a non vivere. Anche se mi piaceva raccontare di essere un’indispensabile tuttofare, instancabile, inarrestabile, capace e brava in tutto. Mi piaceva sminuire gli altri, per sentirmi più grande. Mi piaceva dire che i problemi in negozio li risolvevo io, che fosse stato per mia sorella si sarebbe fatta fregare cinque o sei volte al giorno. Mi piaceva raccontare che mio papà lo controllavo io, dalle sue sbandate, dalla sua leggerezza, anche se forse contribuivo solo a spingerlo là dove poteva permettersi di non pensare. Mi piaceva raccontare che la mamma viveva grazie a me, per l’amore – e i pettegolezzi semi-inventati – che le davo: non per me, perché senza di lei non sarei potuta sopravvivere. Mi piaceva credere di essere la preferita delle zie perché ero una bella persona, non perché si dispiacevano per me. Mi piaceva dare ordini, ai miei, a mia sorella, a mio cognato e ai miei nipoti, alle mie colleghe: obbedivano, o scrollavano le spalle, mi piaceva credere che lo facessero perché ero inevitabilmente giusta, incorreggibile. Mi piaceva credere di essere indispensabile, non certo inutile, non certo un limite.
Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. Aveva già smesso in realtà, più di una volta. Aveva smesso dopo il fallimento di ogni operazione, aveva smesso ogni volta che mi guardavo davvero. Aveva smesso quando mia sorella si è sposata e mia ha lasciata sola, quando ho capito che non potevo più essere l’unica a darle ordini: con la fatica che avevo fatto per renderla così obbediente. Aveva smesso quando è morto papà, anche se al suo funerale non ho versato una lacrima. Aveva smesso quando avevo visto la mamma consumarsi, giorno dopo giorno, per starmi dietro nonostante l’età. Aveva smesso, di nuovo, quando il Destino è tornato a farmi visita: quando ho iniziato a gonfiarmi, quando mi hanno trovato l’infezione ai reni, quando da un camice bianco ho sentito per la prima volta la parola, l’ordine, «dialisi». Morivo ogni giorno, negli occhi di chi mi guardava.
Mi chiamo Itala e sono morta stamattina. Alle 10.43 il mio cuore cessava di battere. C’era gente qui intorno, c’erano camici bianchi e altri neri, c’era un suono fastidioso, gente che correva, qualche urlo. C’era mia mamma, come sempre, l’ho guardata mentre morivo e moriva un po’ anche lei. C’era mia sorella, c’era il sangue, tanto sangue, e lei gli correva incontro, senza cadere.