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La Stanza di Giovanni. Le mura strette del confinamento.

Il corpo nello specchio mi costringe a voltarmi e ad affrontarlo. E io lo scruto, il mio corpo, che è condannato a morte. È magro, forte, indifferente, l’incarnazione del mistero. Ed io non so cosa si muova in questo corpo, cosa questo corpo stia cercando. È intrappolato nel mio specchio così come è intrappolato nel tempo e si spinge verso una rivelazione”.

La stanza come metafora delle prigioni mentali. Pareti che si restringono in uno spazio così stretto da togliere il respiro. Chi segna i confini di quelle quattro mura, chi veste le pareti e ne abbellisce i mobili, nascondendo il mondo dietro tende scure, è sempre la stessa anima che decide se quello spazio sia sufficiente o meno. Non a caso, in questa prospettiva, James Baldwin decide di intitolare il suo romanzo La stanza di Giovanni. Una metafora che l’autore conosce bene. Le pareti della sua vita, infatti, sembrano a volte stringersi come quelle di una camera in affitto. Vive ad Harlem, ghetto nero in cui milioni di Afro-Americani vengono ammassati per non disturbare la borghesia bianca; divide la casa con altri nove tra fratelli e sorelle, tutti ugualmente impauriti da un padre violento e ossessionato dalla religione. Nell’adolescenza realizza di essere gay, il mondo è una stanza stretta, la sua identità è confusa, minacciata, esaltata, comunque troppo pesante. Decide allora di andare a Parigi.

È qui che scrive La stanza di Giovanni, un romanzo controverso, che rema contro troppi interessi. I suoi editori vorrebbero che il suo protagonista fosse nero, questo ci si aspetta da uno scrittore Afro-Americano; e il tema dell’omosessualità è troppo spinto, troppo descrittivo. Ma Baldwin non si arrende, sa bene che c’è un legame intrinseco tra le aspettative dei suoi editori e il rapporto che descrive nel suo romanzo, perché la ricerca dell’identità, la costrizione e il rifiuto dell’io come una colpa marchiata a fuoco nel proprio corpo, sono il filo conduttore che muove la segregazione. David è Americano, ma è anche gay, e si rifugia, come Baldwin, in una Parigi apparentemente accogliente, nella speranza di riuscire a dimenticare quella che sente come una colpa che gli striscia nel corpo. Quando conosce Giovanni, cameriere italiano intraprendente, il suo io cede, muovendosi in un limbo pericoloso, tra desiderio e colpa, tra amore e terrore, in uno spazio stretto che assume le forme delle sue paure. Il tempo, la realtà, l’inutile tentativo di Giovanni di costruire una stanza in cui il ricordo della fidanzata di David non possa entrare, come un vortice questi elementi inghiottono i personaggi in un’oscurità che non lascia tregua.

Dirà Baldwin, attraverso le parole di uno dei suoi protagonisti, “Quanto può durare l’amore (..) solo cinque minuti, gran parte dei quali, ahime! nell’oscurità. E se tu penserai che siano immorali, allora bè, saranno immorali”. L’identità è coscienza di sé, dei propri diritti, spesso costretti in regole che deformano la percezione del proprio essere. David osserva il suo corpo come un estraneo, come un mezzo di sofferenza. Il suo corpo è lo specchio della sua mente, espressione del suo volere, nemico della sua libertà sociale. Non è allora lontano il legame con la lotta per l’identità Nera che i suoi editori richiedevano. Come Afro-Americano, come omosessuale, Baldwin sembra restare convinto del fatto che, finché si appesantisce il proprio corpo di colpe estranee, non è possibile prendere coscienza dei propri diritti. È necessario uscire dalle mura che costringono all’oscurità, e affrontare la realtà.

Durante un’intervista, un presentatore chiese a Baldwin “Quando hai cominciato a scrivere sapendo di essere nero, povero e gay, devi aver pensato…Gesù, potrei essere più svantaggiato?”. “Assolutamente“, ha risposto, “ho pensato…benissimo ho fatto jackpot!”.