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“Elettra” di Sofocle, la tragedia dell’odio

Episodi celebri del mito classico ritornano più e più volte, reinterpretati ora in un modo ora in un altro, con un accento particolare ora qui ora lì. È questo il caso del matricidio di Oreste, figlio di Agamennone, snodo fondamentale della saga degli Atridi.

I tre grandi tragediografi greci – Eschilo, Sofocle ed Euripide – hanno affrontato il tema in drammi ricchi di intensità drammatica. Eschilo lo ha fatto nelle Coefore, dove però la figura di Elettra (sorella del matricida Oreste) è del tutto subordinata a quella del fratello, sia sul fronte dell’azione che dello spessore del personaggio; Sofocle ed Euripide hanno invece posto al centro delle loro tragedie la figura della donna. Ma se il terzo appare più attento alla costruzione complessiva dell’opera, con uno sguardo più generale sulla vicenda, è il secondo a conferire i tratti in assoluto più forti ad Elettra, protagonista vera e vera artefice dell’assassinio della madre Clitemnestra.

Forti dubbi permangono sulla datazione dell’opera, la cui composizione si è comunque soliti collocare tra il 418 e il 410 a.C. (più o meno gli stessi anni dell’omonima tragedia di Euripide).

La scena è ambientata a Micene, presso la reggia di Agamennone, dove Clitemnestra divide il letto con Egisto, complice dell’assassinio del re. Uno scontro feroce tra Elettra e la madre precede l’azione decisiva, che costituisce il piano di Oreste: il Pedagogo (personaggio di invenzione sofoclea), fattosi annunciare alla regina, le comunica la falsa notizia della morte del figlio. Le reazioni naturali all’annuncio sono la prova del nove dei sentimenti reali: Clitemnestra esulta, mentre Elettra si dispera per la morte dell’amato fratello. Nonostante ciò, quest’ultima non si arrende: anzi, decide fermamente di passare all’azione, pianificando ella stessa  l’uccisione della madre (a sua volta, chiaramente, assassina del marito Agamennone: suggestive ed affascinanti risultano le tante interpretazioni freudiane sul rapporto tra Elettra e il padre); chiede l’aiuto della sorella Crisotemi, che però – decisamente di animo diverso – rifiuta categoricamente. Intanto torna in scena Oreste, sotto le mentite spoglie di un messaggero; si svela alla sorella disperata, quindi mette in atto il suo piano: si introduce con l’inganno nella reggia e consuma il matricidio, mentre Elettra, dall’esterno, lo incita implacabilmente. Subito dopo giunge Egisto, condannato alla stessa terribile fine.

Sofocle, come detto, incentra tutto il dramma su Elettra e sulla sua spietata determinazione nel voler compiere il matricidio. A ragione l’opera ha perpetuato la sua fama come “tragedia dell’odio”: qui non c’è una visione tragica del mondo, non c’è quella dicotomia classica tra due scelte entrambe rovinose, non c’è meditazione sul male dell’animo umano.

La protagonista vive esclusivamente in funzione della vendetta, mossa da un sentimento di odio che raramente il mondo antico ha saputo rappresentare così forte, così intenso, così totale. Pur non essendo concretamente lei ad attuare il matricidio, ne è di fatto l’artefice, e Oreste sembra essere quasi un braccio meccanico di una volontà implacabile.

Con la morte di Clitemnestra ed Egisto si chiude il dramma. La scena si chiude, la vendetta è compiuta, non c’è più spazio per nulla. Gli dèi, in questa tragedia, sembrano eclissati. La volontà è tutta, terribilmente, umana.