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“Cacciatori di frodo” di Alessandro Cinquegrani

Dicono che si diventi muti dopo un trauma che non si sa non si può comprendere, troppo forte, invade l’io il tu l’egli il noi il voi l’essi, si diventa muti quando si arriva sul binario morto sull’argine e si aspetta che il treno faccia cadere la testa giù dall’argine e nel fiume, penso mentre cammino con la mia nuvola al guinzaglio. 

 

La facilità di lettura non è sempre garanzia di bellezza e il valore di un romanzo non si misura certo dal numero di pagine o dalla grandezza del volume entro il quale è contenuto.

Ci sono mondi o, meglio, universi, racchiusi in poche righe che hanno la capacità di scavare così in profondità nell’animo del lettore da cambiarlo o, se non riescono in questo, lo costringono almeno ad essere se stesso quanto più è possibile, e necessario, per entrare veramente nella storia che si narra.

Quando si ha tra le mani questo romanzo si resta colpiti dalla copertina, color carta da pane, che scricchiola,  con il disegno di un binario in bianco e nero e un oblò dal quale spunta un rametto dai piccoli fiori rossi. Spunta proprio in mezzo a quel binario che, di lì a poco, si scoprirà essere morto.

 “Vertiginosamente” è scritto nella dedica di Alessandro Cinquegrani ai suoi figli e, non appena ci si addentra nel testo, quell’avverbio non sembra più solo una dichiarazione d’intenti ma l’oggettivazione del suo contenuto.

Non è una lettura facile quella di Cacciatori di frodo. Si richiede al lettore uno sforzo in più e, soprattutto, gli si chiede di non mantenere quel distacco che di solito c’è tra chi scrive e chi legge. Occorre, più che in altre occasioni, calarsi in quell’intricato flusso di pensieri, di ricordi e di coscienza, senza il timore di restarne invischiati, anzi, andando proprio alla ricerca di questo invischiarsi per vivere un’esperienza totalizzante, pur nella sua drammaticità e durezza. Poi, é bene  aspettare che il bandolo di quella matassa emerga, senza fretta, con la pazienza e la voglia di chi desidera arrivare davvero al senso della storia.

Se si prova a leggere con attenzione, e ad alta voce, questo romanzo si ha la possibilità di diventare Augusto, si vive, sulla propria pelle, il dramma di un uomo che ha perso un figlio di soli diciotto mesi, Daniele, e una moglie, Elisa, rinchiusa nella camicia da notte bianca, nella passività e nel mutismo, già lontana, prima, con i suoi attacchi di panico e  ancora di più, ora, con quella depressione divenuta ormai inarrestabile e sempre più nera da quando il dolore le ha tolto la vita pur lasciandola in vita.

La sistematicità di certi riti, la ripetitività di alcune immagini, l’intercalare di quel “penso” che ritorna, ogni volta, rimbombante e ridondante, ritmando una scrittura veloce e “a perdifiato”, sono il frutto di una ricerca stilistica ben precisa, un monologo interiore fatto di pensieri spezzati, frammenti di ricordi, rigurgiti di coscienza, immagini, citazioni poetiche, musicali, cinemagrafiche e bibliche, ben congeniato e di grandissimo impatto visivo ed emotivo. Non è un caso che il testo si sia prestato molto bene, e con successo, alla recente rappresentazione teatrale (26-27 novembre presso il Teatro Ca’ Foscari a Venezia). 

Quella di Cacciatori di frodo  é la storia di una perdita di certezze  (“tutto è finito, chiuso esploso, come una bomba atomica o come una bolla di sapone che lascia ferite indelebili, solitudini fatte a pennello”); della messa in discussione di un’intera esistenza (“tutto il mondo nero di gomma senza vita che avevo creato con la mia fatica”); di rapporti profondi e viscerali, vissuti sempre in modo estremo e deleterio. Come quello con suo padre, nazifascita, condannato alla galera dal fratello comunista, gemello eppure così diverso, amato e odiato Cesare; quello con una madre cattolica, silenziosa e sottomessa, e quello con il suo onesto lavoro, il suo onesto badare onestamente alla sua famiglia, per parafrasare le parole di Augusto.

Tutto questo sotto “un cielo di piombo che pareva il coperchio di una bara”, a pochi passi dal Piave, “il fiume avvelenato” che porta echi di guerra e di morte. Il fiume attorno a quale si nascondono e si muovono i cacciatori di frodo che “possono anche morire annegati ma non possono tornare al paese, non possono tornare allo scoperto.” E, per finire, la pioggia e l’acqua, tanta acqua, catartica, per espiare le colpe. Di tutti.

Un esordio quanto mai felice, anche se suona quasi come un ossimoro se riferito alla tragicità della storia narrata, per Alessandro Cinquegrani, finalista, con questa perla nel buio, al Premio Calvino 2012 e candidato al Premio Strega 2013.

 

Penso ai cacciatori di frodo, ai loro falò notturni lungo il fiume, alle loro canzoni bella ciao son partito, al loro stare seduti con le gambe incrociate, penso, sul binario morto