“Ciò che gli scrittori di nobili origini ricevono gratuitamente, per diritti di nascita, gli scrittori plebei lo devono acquistare a prezzo della giovinezza”.
Questa è la storia di un uomo che ha faticato non poco per uscire dalla mediocrità, mostrare il proprio talento, diventare uno scrittore di successo. Questa è la storia di un sacrificio borghese, di una reputazione costruita a fatica, a costo di tante rinunce e di qualche soave egoismo. Questa è la storia di Anton Cechov, il primo tra gli scrittori moderni a costruire la sua fama nell’humus poco accogliente della povertà e del degrado sociale.
Nipote di un contadino servo della gleba e figlio di un modesto commerciante, Anton Checov rappresenta il simbolo di un’era di rivoluzione sociale, di rovesciamento delle caste che diede avvio anche nella Russia zarista alla nascita di una nuova classe borghese.
Nato a Taganrog, piccola cittadina dimenticata ai margini dell’impero sovietico, poco distante dal mar Nero e quasi al confine con l’odierna Ucraina, il giovane Cechov trascorse in famiglia un’infanzia poco felice, inquietata dalla perenne minaccia delle percosse “educative” del padre e dall’atmosfera poco stimolante della provincia. Unica luce nel buio tunnel dei primi anni fu la guida del suo professore di religione, che, riconoscendone l’acerbo talento, lo avviò alla lettura della satira di Swift e Molière. Nel 1873, assistendo a una rappresentazione di Offenbach, Checov scoprì il teatro, un amore che l’accompagnerà per tutta la vita.
La sonnolenza culturale della piccola Taganrog gli divenne ancor più insopportabile; circostanza questa che lo spinse appena possibile a seguire le orme dei fratelli maggiori, lasciando la cittadina natale per inseguire il sogno moscovita. A Mosca Anton Cechov giunse nel 1879, dove frequentò brillantemente la facoltà di medicina, contribuendo con la sua borsa di studio ad alleviare i disagi economici della famiglia costretta anch’essa a trasferirsi nella metropoli a causa del fallimento della drogheria paterna. A Mosca si avvicinò alla scrittura, pubblicando i suoi primi racconti a puntate su alcuni giornali molto conosciuti dell’epoca (come la rivista “Schegge”) e firmandosi con lo pseudonimo di Cechontè, datogli la prima volta da quel lungimirante maestro ginnasiale.
La pubblicazione quotidiana di racconti umoristici, pur soddisfacendo in parte la sua fame letteraria e garantendogli una minima agiatezza economica, gli lasciava tuttavia addosso la perenne sensazione di essere un mero esecutore piuttosto che un vero scrittore.
“Sono giornalista perché ho scritto molto, ma non morirò giornalista. Se continuerò a scrivere, lo farò da lontano, nascosto in una nicchia […] Mi immergerò nella medicina; è la mia unica possibilità di salvezza, benché non abbia ancora fiducia in me come medico”.
La tanto desiderata laurea arrivò nel 1884, stesso anno in cui pubblicò, a sue spese, una raccolta delle sue migliori novelle, che passò inosservata alla critica. Il 24enne Anton si gettò allora a capofitto nella fruttuosa professione di medico, uscendo definitivamente dall’angosciosa indigenza in cui aveva trascorso i primi anni di vita. Eppure, nonostante la medicina gli regali grandi soddisfazioni, la scrittura rimane il suo unico scopo.
Nel 1885 qualcuno si accorse del suo talento: fu convocato a Mosca dall’editore Suvorin, direttore del più importante giornale dell’epoca, Tempo Nuovo. Per un giornalista quel momento sarebbe stato insieme la consacrazione e l’inizio di una grande carriera, ma Cechov aveva un’anima di scrittore, maltrattata da una società in cui l’arte (e la scrittura) già si avviavano lentamente a diventare oggetti di consumo.
L’unico a interpretare il suo malessere fu Dmitrij Grigorovic, uno dei più affermati critici letterari dell’epoca, che nello stesso anno gli scrisse:
“Smettete di scrivere troppo in fretta. Non conosco la vostra situazione economica. Se non fosse buona, meglio sarebbe per voi patire la fame, come avvenne a suo tempo nel nostro caso, e tenere in serbo le impressioni per un lavoro maturo, compiuto […] Un’unica opera scritta in tali condizioni avrà un valore mille volte superiore a un centinaio di novelle, anche buone, sparpagliate su diversi giornali”.
Cechov mise in atto il consiglio tre anni dopo, nel 1888, quando, reduce del successo del suo primo dramma teatrale, l’ “Ivanov”, diede alla luce quello che tuttora è considerato uno dei suoi migliori racconti, “La steppa”. L’intenzione di dedicarsi finalmente alla stesura di un racconto lungo e meditato, senza i limiti tipicamente imposti dalle esigenze di pubblicazione delle riviste, diede la luce a un racconto che lo stesso autore giudicò “il mio capolavoro. Non sono in grado di fare di meglio”.
I mesi successivi (gli anni successivi), offuscati dallo spettro della tubercolosi che, manifestatasi in giovanissima età, continuerà ad affliggere lo scrittore a fasi alterne per tutta la vita, dalla morte del fratello NIkolaij, stroncato dallo stesso male, e dalle paventate nozze della sorella Marija, cui Anton fu sempre legato da un rapporto al limite dell’ambiguo, che infine rinunciò per amore del fratello, furono di grande fermento: ormai affermato nel panorama letterario dell’epoca e ben lontano dalle preoccupazioni economiche dei primi anni, Cechov viaggiò a lungo in Europa e si concesse l’acquisto di numerose proprietà; paragonato, dopo “La Steppa”, al grande Tolstoj, Cechov intrattenne con il suo rivale letterario un rapporto contrastato, che portò entrambi a criticarsi vicendevolmente, l’uno scagliandosi contro le opere teatrali giudicate prive di spessore drammatico, l’altro contro la tendenza eccessiva dell’ormai vecchio scrittore a criticare la società moderna.
Cechov e Tolstoj si incontrarono una sola volta, nella tenuta di Jasnaja Poljana: conversarono, fecero il bagno nell’Upa, passeggiarono e infine Cechov ebbe il privilegio di assistere alla lettura dell’inedito “Resurrezione”, l’ultima opera del vecchio simbolo della letteratura russa, ancora alla sua prima stesura.
Seguirono anni letterariamente fecondi; tra il 1892 e il 1896 Cechov scrisse altri due racconti sulla follia, “La corsia n°6” e “Il monaco nero”, entrambi più maturi, frutto dei bilanci di un uomo ormai adulto che fa i conti con l’avanzare del proprio pessimismo, e una pièce teatrale, “Il gabbiano”, che dopo un iniziale insuccesso (come spesso accadeva alle sue opere) ebbe grandi favori di pubblico e critica.
Si trattava – secondo lo stesso Cechov – semplicemente di scegliere gli attori giusti, uomini e donne sensibili che sapessero calarsi nei raffinati ruoli cechoviani senza snaturarne l’essenza; era il caso di Ol’ga Knipper, fine interprete dei personaggi di Cechov che infine, dopo una lunga e travagliata relazione sentimentale, divenne sua moglie nel 1901.
Il matrimonio, celebrato in grande segreto, ferì terribilmente Marija e si rivelò penoso per lo stesso scrittore: i cattivi rapporti tra la sua famiglia e la nuova moglie costringevano gli sposi a restare separati per lunghi periodi, anche a causa del lavoro di lei, sempre impegnata in qualche tournée di successo; la salute di Cechov intanto peggiorava, così come la sua vena creativa, che si andava affievolendo. Le crisi sempre più frequenti di tubercolosi lo tenevano bloccato nella sua villa di Jalta, mentre Mosca lo chiamava con la seduzione di nuovi spunti narrativi e l’attrattiva della moglie impegnata in teatro.
L’ultima volta, Cechov si recò a Mosca nel 1904. Di ritorno a Jalta la sua salute peggiorò al punto che anche il viaggio a Berlino, per farsi visitare da un luminare tedesco, si rivelò inutile: ormai era spacciato.
La morte lo colse il 1° luglio, a Badenweiler, stazione termale nella Selva Nera dove si era recato nella ormai vana speranza di curarsi, con in mano un bicchiere di champagne che richiese espressamente per l’occasione, gli occhi negli occhi della moglie Ol’ga, nella mente ancora il ricordo delle parole del racconto umoristico che, come soleva fare da ragazzo, aveva inventato per lei.
Le sue spoglie tornarono in Russia il 9 luglio, per un funerale in pompa magna a cui si unirono tantissimi suoi lettori o ammiratori. Per celebrare la morte dell’uomo che, meglio di tutti, aveva saputo dare voce a quegli anni concitati, di cambiamento e perdita dell’identità individuale, sdoganando l’arte letteraria dalla sua connotazione di essere appannaggio esclusivo della nobiltà, pioniere di un nuovo modo di fare letteratura “borghese”.