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La Parabola del Maestro di Arzano.

Di Marcello D’Orta non ho letto che un libro, il più famoso, quello che ha visto girata la versione cinematografica nella mia città (Taranto): “Io speriamo che me la cavo”. L’ho letto due volte e avevo, rispettivamente, 10 e 20 anni. A pochi giorni dalla sua morte mi è sembrato doveroso e giusto e bello parlare di una personalità che tanto mi ha colpita sin da piccola e che sempre ha alzato con forza la voce dalle vecchie, scassate scuole piene di buchi nei muri.
La prima tentazione sarebbe di stilare questo mio personale pensiero sotto forma di tema, quella produzione letteraria tipicamente scolastica tanto cara al Maestro napoletano, per il puro gusto di consegnarlo idealmente all’insegnante che ho sempre sognato di avere. Ma sarebbe pressocchè impossibile, forgiata ormai da libroni ed esami universitari che poco hanno a che fare con il temuto (eppure sempre attesissimo) tema del compito in classe.

Inizierò con un ricordo, le prime impressioni, cioè, suscitate dall’acerba lettura di “Io speriamo che me la cavo”. Avevo dieci anni, appunto, e mi accingevo ad entrare nell’universo mondo della lettura e fra i libri che i miei genitori avevano a casa, spiccò quello di D’Orta. Decisi di leggerlo convinta di trovare spunti per temi futuri, senza sapere che stavo per penetrare in una realtà che era lontana, lontanissima da me nel tempo e nello spazio: la Napoli dei primi anni 90. Ogni tema letto si trasformava in una sorta di confronto con un compagno di classe ormai cresciuto (il libro fu pubblicato un anno prima della mia nascita) col quale condividere una parte, seppur piccolissima, della sua vita e ciò mi regalò una grossa e quasi infinita dose di risate quando leggevo, ad esempio, delle vacanze estive di un bambino che giocava ad acchiapparella con Totore:

Lui cadeva sempre, e io gli gridavo <<Strunz, sì carut!>> ed ero felice.

Ma anche lacrime di commozione all’idea di un ragazzetto che viveva in una casa tutta sgarrupata con i soffitti, i mobili, le sedie, il pavimento, i muri e il bagnio sgarrupati e una mamma che gli ripeteva in continuazione che il Terzo Mondo era più terzo di loro; e, ancora, riflessioni profonde (per una bambinetta occhialuta di soli dieci anni) sul procedere dell’esistenza di miei coetanei in una città che non era la mia e che presentava problematiche difficili, con uno scarto di tempo di dodici anni. Di quei temi mi colpiva soprattutto il fatto che dei bambini come me non avessero avuto paura di esprimersi nel linguaggio che sembrava loro più consono, il dialetto, sciolti dal timore di incorrere in un brutto voto ed inoltre mi affascinava il fatto che un maestro avesse avuto l’idea ardita di far conoscere ad un pubblico ampio i pensieri di questi miei coetanei così ignoranti eppure saggi.

A vent’anni le riflessioni nate da una nuova e più attenta e profonda lettura del capolavoro di D’Orta (in Italia, all’epoca dell’uscita, contò due milioni di copie vendute) mi hanno di nuovo permesso di affacciarmi su una realtà che adesso non è poi così lontana dalla mia e che D’Orta e i suoi scolari sono riusciti a raccontare e descrivere con parole semplici, quelle dei bambini appunto.

Per Marcello D’Orta, proveniente da una numerosa famiglia napoletana di Porta S.Gennaro, mai il vecchio adagio “nemo profeta in patria” è stato più adatto. Chi ricorda quegli anni, gli anni della pubblicazione di “Io speriamo che me la cavo”, afferma con certezza che il motivo di tanto scalpore, tanta polemica nacque a causa del solito difetto napoletano: se denunci un problema, il problema diventi tu. Qualcuno si sentì offeso perchè un cittadino di un paese sgarrupato disse che abitava in un paese sgarrupato, cioè la verità. Amante della generosa Partenope, D’Orta l’accademia non l’aveva mai frequentata e nemmeno il liceo da docente. A lungo maestro elementare, ha lavorato con gli elementi semplici di una chimica complessa e affascinante, quella dell’insegnamento. Arzano e i quartieri più poveri di Napoli sono stati la sua Sorbona, una sorta di università dell’innocenza e del candore dove a salire in cattedra sono stati i pensieri dei suoi piccoli allievi. In una intervista del 2000 aveva rivelato di aver scelto di fare il maestro perchè da bambino aveva conosciuto a Bologna il mitico Alberto Manzi, il popolare insegnante elementare che per la mamma Rai degli anni Sessanta conduceva il programma “Non è mai troppo tardi”.

La sua vocazione di scrittore nacque, invece, con la lettura di due dei capolavori di Charles Dickens: David Copperfield e Oliver Twist, due ragazzi disgraziati che vivono meravigliose e drammatiche avventure in grandi metropoli, schiave della cattiveria e dei compromessi morali del mondo degli uomini.
Ed ecco spuntare, nel 1990, quel tenero fiorellino che dapprima allietò e divertì, poi impensierì e, almeno in parte (si spera), responsabilizzò milioni di lettori adulti. “Io speriamo che me la cavo” fu un fenomeno editoriale e di costume, fu il modo nuovo per dire, tramite le composizioni degli under 10, che il re è sempre nudo, che la camorra, il contrabbando, la prostituzione, le ragazze madri sono importanti più delle tabelline e della grammatica, sono la materia quotidiana con cui dobbiamo sporcarci le mani dai sei ai novant’anni. D’Orta di qui, D’Orta di là: il maestro che sfogliava la margherita degli infanti assurse, in tv e sui giornali, al rango di personaggio «globale» quando di globalizzazione ancora non si parlava. Si disse anche che il libro fosse un falso, che i temi se li fosse scritti da solo; si gridò al “caso letterario montato ad arte”, e taluni dubbi sono rimasti. Ad ogni modo, totalmente autentica o romanzata, quella di D’Orta fu una testimonianza importante, che dalle foglioline giovani di un albero partiva per raccontare la salute delle radici. Una salute che purtroppo già mancava.

A chi gli ha chiesto come fosse vivere in una città che lo ha sempre rifiutato, lui rispondeva che altrove non poteva proprio stare. A chi gli ha chiesto di raccogliere i temi di bambini da ogni regione d’Italia, lui sorrideva divertito affermando che il linguaggio dei bambini dei quartieri più provati di Napoli possedeva un tocco più vivo e ammetteva che non avrebbe mai neanche pensato ai ragazzi del Vomero (quartiere nel quale abitava) per una sorta di “edizione aggiornata” del suo best-seller.

I ragazzi del Vomero non avrebbero mai scritto così -affermò- Perchè i temi dei bambini di Arzano sono colorati, vitalissimi, spesso prodigiosamente scoppiettanti di humour involontario, che di primo acchito possono far pensare a una travolgente antologia di “perle”. Ma, per chi sa guardare, sotto c’è qualcosa di diverso e di più. Una saggezza e una rassegnazione antica, un’allegria scanzonata e struggente nel suo candore sottoproletario, una cronaca quotidiana ilare e spietata che sfocia in uno spaccato inquietante delle condizioni del nostro Sud. Qualcosa che invita a pensare e che difficilmente un serioso tomo di sociologia potrebbe darci con tanta immediatezza.

È per questo che la parabola del maestro di Arzano continua a commuovere moltissimi fra i suoi concittadini, grandi o piccini che siano. Ed è per questo che, ancora una volta, alle soglie del drammatico momento storico che non solo Napoli, ma l’umanità intera vive, mi sento di esclamare a lui che ci ha lasciati prematuramente: “Marcello, io speriamo che me la cavo!”.

Arrivederci, Maestro!