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Intervista a Chiara Gamberale, 19/11/13 a Milano.

Doveva andare così: sarei salito sul tram 1 alla fermata Repubblica, direzione Corso Montenapoleone, ma poi sono salito su quello prima o su quello dopo, non lo so, e così ho aspettato Chiara alla Feltrinelli di via Manzoni, dove sarebbe arrivata di lì a poco per l’aperitivo ed i festeggiamenti in occasione dell’uscita del suo libro.
L’ho incontrata mentre parlava di un certo tale, sicuramente un pazzo, che un giorno le spiegò perché l’aspirina si chiama aspirina e che cosa fossero le costellazioni familiari o una cosa del genere. Stava seduta su una sedia, le gambe accavallate, gli stivali ancora un po’ bagnati dalla pioggia che da tutto il giorno scendeva su Milano, un braccio poggiato sul tavolo, i capelli raccolti in una coda, il suo accento romano, una voce fresca.
Prima di intervistarla abbiamo mangiato la torta che stava sul tavolo impacchettata, insieme alle copie del suo libro impilate una sull’altra. Una torta meravigliosa, con la stampa della copertina del suo libro.
Abbiamo iniziato l’intervista con lei che mi ha chiesto se fossi io Stefano, ed io ho subito pensato che c’era qualcosa che non andava. Lei chiedeva se io fossi veramente io?
Ci siamo seduti l’uno di fronte all’altra.
“Non registri?”, ha chiesto lei, vedendo che in mano non avevo nulla, né cellulare né registratore, niente di  niente.
“No, vorrei che rimanesse una cosa nostra, perché le domande che ho da farti sono mie quanto tue, riguardano me quanto te.”
Sapevo cosa stavo dicendo, lo giuro. Ho voluto interessarmi a lei e non al suo romanzo. In fondo l’ho già letto, no?, ho pensato, so come va a finire la storia, so come s’è evoluta, ma io ho solo dieci minuti per scoprire chi c’è dietro quella storia, chi è la mano, la penna dell’opera, e voglio sfruttarli fino alla fine.
Così le ho chiesto quanta Chiara ci fosse nella Chiara del libro, e lei mi ha risposto che beh, c’è tanta Chiara, in quel libro c’è lei ma c’è anche una storia che ha voluto raccontare, che ha elaborato, e lì, alle mie spalle (“guarda”, mi ha detto indicando qualcuno dietro di me) c’era Gianpietro, quello del libro ma soprattutto quello vero, il vero suo amico. Un ragazzo vestito elegante, con un sorriso timido, complice, ed è bastato vederli guardarsi per capire che la loro è una di quelle amicizie che non si slegheranno mai.
Stavo partendo con la seconda domanda quando subito m’è venuto in mente che eravamo tutti e due in una città non nostra, lei di Roma, io di Torino eppure in quel momento tutti e due a Milano.
“Come ti sembra questa città? Se ti dovessi trasferire qui o comunque in una città nuova, che cosa faresti per dieci minuti, per familiarizzare col luogo?”
Ed è stato un attimo, un po’ di esitazione, un sorriso timido. Ha preso fiato e si è sporta verso di me – ed io verso di lei, eravamo vicinissimi, se non avessimo avuto così tante cose da dirci, se non avessimo avuto così poco tempo a disposizione avremmo potuto anche sfiorarci, abbracciarci, sentire le nostre storie che ci scorrono dentro, come quando ho letto il suo libro in anteprima e ho sentito qualcosa scorrermi nel sangue, forse qualche pezzo della sua vita particolarmente simile alla mia oppure…non lo so. Poi ha posato il suo sguardo lontano da me, chissà dove, chissà perché, e ha cominciato a rispondere alla mia domanda. Mentre mi diceva “Sai, è un nervo scoperto, quello mio, quello delle grandi città, perché ho un rapporto difficile con loro, mi lasciano sempre senza difese. Quindi farei come nel libro, camminerei per dieci minuti al contrario, come a dire: vediamo se mi fai del male anche se gioco con te, se ti affronto con poesia” io continuavo a pensare che era la stessa Chiara delle costellazioni, dell’aspirina, la stessa Chiara che prima era distante da me ed ora a separarci erano solo un libro, le parole.
La terza domanda, l’ultima: “Il tuo modo di scrivere mi ha ricordato molto Virginia Woolf. Può essere?”.
“Beh, ti ringrazio. Lei è certamente inarrivabile, mi piace moltissimo.”
S’è messa parlare di “Al faro”, del finale, della visione, e poi mi ha consigliato di leggere un’autrice che non conosco, “come non conosci?! Devi leggerla. Devi. Il suo modo di scrivere t’ammazza”. Non ne ricordo il nome (ehi, Chiara, mi leggi? Scusa scusa scusa, avevo detto poi me lo segno, poi me lo segno, ma come vedi…).
I dieci minuti a mia disposizione si sono fatti undici e l’intervista è finita.

 

Ciò che di tutto questo mi rimane è il suo libro con una dedica magnifica (“io te la scrivo però te la leggi fuori”, mi ha detto scherzando, ed io come un bambino mi sono voltato per non cadere in tentazione), la fotografia col suo libro in mano che le ho scattato (“questa te la fai fare, eh, voglio una bella foto ricordo!”), la forza che ancora non capisco bene se provenga più dalle sue parole o da come lei è capace di sorriderti, di ringraziarti perché le fai una domanda quando invece vorresti ringraziarla tu, per la risposta, per come te l’ha data, con semplicità e meraviglia.

 

È stato bello conoscere Chiara Gamberale.
È stato bello prendere il tram sbagliato.