Supermercato. Romantica scelta del tema, non trovate? Supermercato. Vi rifarò la stessa domanda tra qualche riga, vediamo se avrete cambiato idea.
Dicevamo, supermercato: «tipologia di operatore della grande distribuzione organizzata (GDO). È caratterizzato dall’essere un punto vendita al dettaglio a libero servizio di prodotti di largo consumo con una superficie compresa tra i 400 m2 e i 2500 m2». Questo recita Wikipedia e, pensate quel che volete, io di Wikipedia mi fido. Supermercato, luogo di perdizione, luogo in cui perdersi piuttosto. Posto ostile, posto felice. Subdolo, accogliente. Odi-et-amo per molti, per me di certo: anche se i miei motivi, i miei perché, sono diversi dai vostri. Ho l’impressione che lo siano sempre. Poi chissà, forse ora che leggete vi rendete conto di avere il mio stesso rapporto tormentato con il supermercato. Tormentato sì, come quello che abbiamo tutti – chi più, chi meno – con la mamma.
Dall’inizio. Ricordo quando hanno aperto il primo supermercato nel mio paese, lo ricordo come fosse ieri. Devo già correggermi: una paio di supermercatini li avevamo già, questo veniva però annunciato come un piccolo centro commerciale. Piccolo lo scrivo io, ora: allora non era certo scritto sui volantini. Ad ogni modo, avevo dieci anni e questo nuovo spazio sarebbe stato inaugurato di sabato pomeriggio, con i dovuti buffet e palloncini, ospiti e autorità locali. Le mie compagne di classe ne parlavano da giorni, si davano appuntamento: si sarebbero trovate là tra pizzette e regalini con le loro mamme, casalinghe, commesse, impiegate, ansiose quanto le loro bambine, impazienti di discutere della varietà dei prodotti per la casa e del progresso che avanzava inesorabile davanti ai loro occhi. Io no, non ci sarei stata: mia mamma sarebbe stata occupata come al solito col primogenito, il figliol prodigo, quello che stava sempre un passo avanti a me in tutto, il suo negozio. «Vai con la zia, vai con la nonna, vai con le tue compagne»: ma no, non è la stessa cosa. Non capisci? Non capisci davvero? Il lunedì a scuola fu terribile. Erano state tutte là, tutte. Io non avevo niente da dire, niente da obiettare, niente da ricordare, nessun souvenir, nessun mal di pancia da eccesso di caramelle. Avevo perso un’occasione, col tempo avrei affinato quest’arte. L’arte di perdere, e non solo le occasioni: l’arte di perdere momenti con mia madre, l’arte di non capirlo, l’arte di non riuscire a farglielo capire. L’arte di perdere, per questo, un sacco di altre cose. L’arte di perdere.
I negozi di alimentari hanno il turno di risposo di lunedì pomeriggio. Io, per anni, l’odio diffuso per il lunedì proprio non l’ho capito. A me piaceva il lunedì, era l’unico pomeriggio in cui avevo una mamma in casa come le mie amiche. Era l’unico giorno in cui potessi invitarle a casa queste amiche. Era l’unico giorno per sperare che mia mamma dovesse fare la spesa. Accadeva di rado in realtà, spesso non aveva tempo nemmeno il lunedì, o non voleva averne. Per i detersivi o gli acquisti urgenti mandava papà credo, io ero a scuola e la immaginavo così. Quanto al cibo, beh buona parte di quel che si mangiava in casa veniva dalla sua forneria, dal macellaio vicino o dal fruttivendolo sotto casa. Io comunque ogni lunedì ci provavo: mamma andiamo al super? Che ambiziosa. Bramavo quel momento dalla sveglia del mattino, in classe non pensavo ad altro: forse oggi vado al super, forse oggi vado al super. Che poi, non è che facessi grandi acquisti o mi divertissi in maniera particolare. Finiva sempre che mia mamma era sempre due corsie avanti e io urlavo perché non mi aspettava. Qualche matita, due evidenziatori, creme al limone, al cioccolato o tramezzini che puntualmente finivo prima dell’ora di cena mentre scartavo la cancelleria – ho avuto un’adolescenza da piccolo maiale, sì. Stanca, arrabbiata, ma felice: un lunedì sera al mese, per buona parte della mia infanzia e tutta la mia adolescenza da piccolo maiale, mi sono sentita così. Gli altri lunedì no, non aveva tempo. «Vai tu se ti serve qualcosa», aveva iniziato a dirmi una volta cresciuta. Prima della patente, ma col permesso di gironzolare in paese. Ma non mi serve niente, non capisci? Non capisci cos’è che mi serve? Non capisci davvero? L’arte si affinava, con l’esercizio, la pratica, la costanza. Quella che non riuscivo a mettere in nient’altro: non a scuola, non nello sport, non nella vita. L’avessi capito prima; l’avesse capito.
Non capiva, non lo capisce nemmeno ora. Nemmeno ora, ora che gliel’ho detto chiaro e tondo. Ora però la capisco io: non era la testa a non capire, era il cuore. Con la logica, prima o poi nelle teste – anche in quelle più dure – ci entri: nel cuore no. Deve esserci uno spiraglio, un’apertura, una volontà di capire, di «capire». Lì non c’era. Io volevo passare un po’ di tempo con mia mamma, mamma non poteva permettersi di arrivare a sera e sentire di aver perso tempo al supermercato. Non erano un paio d’ore con me, con sua figlia, erano due ore perse, irrecuperabili. Due ore in cui avrebbe potuto stirare-lavare-passare dalle zie-pulire a fondo il negozio-preparare la cena-preparare le prossime cene-lavare i vetri-lucidare l’argenteria-fare fare fare. Solo il lunedì pomeriggio si poteva dedicare a queste arti e io, egoista, volevo portarle via quel poco – pochissimo – tempo.
Passano gli anni, passa l’università, ci penso meno ma ci penso ancora. A momenti alterni. Imparo a mandar giù e al supermercato imparo ad andarci da sola, quando mi serve qualcosa. Imparo ad andarci anche quando non mi serve niente, a buttare del tempo. Rinunciataria applicata, imparo anche a chiederle: vado al super, ti serve qualcosa? Autolesionista. Passano gli anni e arriva il giorno in cui mi trovo a fissare lo scaffale dei bagnoschiuma senza riuscire a muovermi. Sento un brusio, un ronzio, un rumore di fondo che cresce, l’embrione di uno stato confusionale che mi paralizza e mi impedisce di scegliere, di riflettere, di prendere un flacone a caso e andarmene. Mi succede a 60 km da casa, in un nuovo supermercato, uno mai visto prima. Uno in cui entro per la prima volta, vicino alla scuola in cui insegno -la mia prima supplenza: 60 km da casa e certo non torno per pranzo, il Consiglio di Classe lo aspetto qui. Un brusio, un ronzio, un rumore di fondo che cresce, incapace di muovermi sento tutto, ascolto tutto. Torna alla mente il lunedì, quel lunedì-una-volta-al-mese. Dodici in un anno. Tornano alla mente le mie inutili spese in solitaria in cui incontro madri e figlie, nemmeno troppo carine, intente a cimentarsi con tutta la naturalezza del mondo nella classica attività madre-figlia: fare la spesa. Io da sola. Io, più magra, più abbronzata, più impegnata, più simpatica – più del maialino adolescente e, con una punta di presunzione, anche più dell’attualità di queste figlie mi pare. Io sola col mio cestino – non li so guidare i carrelli -, le altre figlie con le mamme. Supermercato odi-et-amo: iniziate a capire? Iniziate a trovarlo romantico il supermercato?
Se ci penso sento il brusio. Il brusio di ogni volta che sono entrata per comprare le due sciocchezze dimenticate il giorno prima. Ogni volta che, col tempo, sono entrata solo per comprare sedano e zucchine prima, yogurt e cereali poi. Sedano, zucchine, yogurt, cereali e carne per lui, più tardi ancora. Perché passano gli anni, ne passano altri e convivi: convivi con lui che lavora più di te, che di tempo per fare la spesa ne ha meno di te. E in fondo è giusto che al supermercato ci vada tu: tua mamma mandava papà e questo non ti è mai andato giù. Lui però ti ascolta, ci puoi parlare con lui. Gli spieghi il male che ti fa, l’ansia che ti assale nel reparto frutta, lo smarrimento della macelleria, l’alienazione tra i detersivi, la sensazione di doverti difendere nella profumeria, quella che non ti può nemmeno sfiorare tra patatine e biscotti, perché di lì non ci passi da anni. Gli spieghi quello che, col tempo, sei riuscita a capire del supermercato. Gli spieghi e capisce. Capisce fin troppo bene, come se gli raccontassi un film che aveva già visto: teneramente però, ti ascolta fino alla fine, fingendo di non averne mai sentito parlare, fingendo che tu non ti stia perdendo di nuovo in quel rumore di fondo. Finisce che a fare la spesa ci andate insieme, il sabato pomeriggio. Il calmo sabato pomeriggio, quel sabato pomeriggio che tu non hai trovato così fantastico come lo raccontavano tutti. Ora ti puoi ricredere. Ma non basta, non è così semplice e l’arte di cogliere le occasioni non l’hai proprio imparata: inizia bene e finisce male, sempre. Inizia con la distrazione del reparto frutta, dove in fondo hai qualcosa da cercare. Prosegue con qualche battibecco che va dai detersivi alle tisane, dandosi il cambio con un paio di carinerie in cui nemmeno ti riconosci, ma finisce male arrivando alle carni: qui è lui a distrarsi e lasciarti sola in fondo, perché lì ti annoi, hai freddo e la carne che sta scegliendo con cura non la vuoi mangiare, anche se sai che dovresti. E ti allontani, e sei sola. Di nuovo. Sola in un supermercato, la storia della tua vita. Finisce che ne esci persa, anche stavolta: stanca, confusa, arrabbiata. Finisce che si litiga, ogni sabato, ogni volta. Finisce che, per salvare la serata, inizia a farla lui la spesa, così tu nel supermercato non ci devi più entrare. Così non ti fa male, così non ti fai male.
Il lunedì diventa sabato, ma il sabato non lo aspetti con l’agitazione di quei lunedì. Lo aspetti con la paura dell’ennesimo palesarsi delle tue incapacità: alla lista infinita iniziata con il primo quaderno a righe grandi aggiungi la voce «fare la spesa». Ma non è così, non è così che si vincono le paure, non è così che si combatte. Allora lo affronti il mostro, lo affronti di nuovo e lo affronti da sola, un sabato pomeriggio in cui lui non c’è. Parti, positiva e diretta, con l’idea che non perderai quarti d’ora tra le bistecche, che non litigherai, che sarai sola di nuovo, ma stavolta la spesa la farai per qualcuno che nel frattempo sarà tornato a casa per aiutarti a portare le borse. Parti, positiva e diretta. Entri e continui ad essere diretta, ma meno positiva, sempre meno. Succede che ti senti sola e ti perdi. Succede che cresce il brusio, il rumore, la gente ti viene addosso, non ti vede, è sabato pomeriggio. Succede che non le vedi più le mamme con le figlie, non le vedi davvero. Succede che vedi le coppie. Le coppie giovani, le coppiette, le coppie assodate, le coppie dell’età dei tuoi genitori, dei nonni quasi. Le coppie con i figli piccoli, le coppie agghindate da gran sera per sfilare tra surgelati e shampoo. Le coppie che hanno l’aria del vip paparazzato con la fiamma di turno al discount. Le coppie che non hanno niente da dirsi e quelle che non hanno bisogno di dirsi niente. Lei, lui e tu di nuovo sola, col tuo cestino – il carrello ancora non lo sai guidare. Succede che ti manca ancora qualcosa, qualcuno. Succede che questa parte della tua vita ancora non riesci a scriverla in prima persona, e cresce il brusio. Succede che ti manca ancora qualcosa, qualcuno. Qualcuno che però ora è a casa ad aspettarti e scenderà per prendere le borse. Per rimproverarti perché la carne, alla fine, non gliel’hai presa.
Supermercato. Romantica scelta del tema, non trovate?