Eravamo perfetti, comunque fossimo. Lo eravamo quando seduti nel dehor di un bar di Magenta consumavamo in silenzio i nostri caffè o quando dopo aver cenato al Roadhouse rimanevamo fuori dal locale a parlare.
Scolpiti nella memoria come lontani rintocchi di mezzanotte, quegli attimi ricordavano ad entrambi quanto stessimo bene insieme anche senza rivolgerci la parola: come in un puzzle, i nostri respiri si incastravano perfettamente.
Ogni posto in cui ci trovavamo era quello sbagliato per compromettere la nostra serenità: parlarsi anche quando non ce n’era la voglia, rimanere insieme quando la miglior cosa sarebbe stata andarsene per non farsi del male erano le migliori battaglie vinte.
La parola “Fine” torreggiava sulle nostre teste: era da stupidi credere che la mia passività compensasse la tua autorevolezza. Il problema era che nulla avrebbe potuto salvare il nostro rapporto finché tu, mangiato dalla paura di amare, avessi continuato a fuggire saltando su qualche treno o aereo.
Fuggivi, ti riprendevo con le mie suppliche – perché tu tornavi ad ogni mio accenno di depressione, sempre – e tutto ricominciava da capo: promesse, giuramenti, richieste, domande, progetti.
Ma eravamo perfetti lo stesso. Tu, che preferivi rinunciare alla tua libertà per impedirmi di soffrire ed io, che mi aggrappavo ad ogni minuto che passava per sperare che stavolta le cose sarebbero cambiate.
Di una bellezza eterea erano le nostre cene nei fast-food impregnati d’aria fritta ed eterne, estatiche, erano le nostre passeggiate serali per il centro di Torino, quando venivi a trovarmi.
Non era così male sfiorare l’Inferno per scoprire che con un po’ di fatica potevamo comunque sentirci in Paradiso.
Eravamo perfetti e disperati: ci chiedevamo aiuto nei modi sbagliati, io sfiorando il delirio e tu fuggendo, e sempre trovavamo compromessi e grammi di amore ai quali era impossibile rinunciare.
Perfetti e spietati: di notte ci distruggevamo, riducendo a brandelli ogni millimetro della nostra pelle, graffiandoci; ci arrendevamo alla furia perversa della notte, abbandonando il nostro pudore, prede della violenza e padroni delle nostre azioni. Poi crollavamo senza più forze e dignità sul letto, ciascuno nell’illusione che la propria solitudine urlasse più forte della lenta agonia che opprimeva le nostre anime appassite.
Perfetti e codardi, egoisti: meglio fuggire ciascuno nella propria corazza che rischiare di star meglio soffrendo un po’ di più; ma anche arrendevoli, perché con la coda tra le gambe tornavamo puntualmente sui nostri passi, ispirati da un’improvvisa e reciproca mancanza.
Eravamo perfetti e soli, di notte e di giorno. Soli coi nostri pensieri e con le nostre pene, che non condividevamo ma eliminavamo camminando mano per mano, non pensandoci.
Perfetti e spietati ci spiavamo. Gelosi, insicuri, ancora bambini. Come quella volta che ti squillò il telefonino, rispondesti e alzandoti da tavola raggiungesti il retro del pub. Io ti seguii lasciando l’hot dog ancora fumante sul piatto, indossando il mio cappotto pesante. Il proprietario del locale mi bloccò le braccia accusandomi di non aver pagato. Mi dimenai, scalciai, urlai piangendo, supplicandolo di lasciarmi andare: avrei pagato tutto, anche il doppio, ma dovevo uscire, cercarti, scoprire chi avesse interrotto il nostro pranzo.
Entrasti dentro come tutte le volte che questa scena, come prevista da un copione, si ripeteva. Il tuo viso era dipinto di un sorriso di una bellezza struggente: un pugno allo stomaco. Mi guardasti in faccia – gli occhi gonfi di lacrime, la bocca ancora aperta, le braccia immobilizzate.
Il mondo brillò quando mir assicurasti dicendo che si era trattato dell’ennesima telefonata di lavoro.
Perfetti e d’un tratto indifferenti. Alcuni giorni erano costellati da telefonate, interruzzioni, visite impreviste, incontri casuali… E nessuno fiatava: si rimaneva al proprio a posto, da soli con se stessi. Non una domanda, uno sguardo interrogativo, un lamento sfuggito involontariamente dalla bocca. Forse nemmeno la fiducia o la paura di perdersi per poi mai più ritrovarsi: l’indifferenza totale e basta.
Perfetti e silenziosi: parole inghiottite dalla rabbia, dal tormento e dalla passione. Sguardi che avremmo potuto raccontare in fogli infiniti.
Perfetti e pensierosi, perfetti ed umani, differenti, intinti in una tavolozza di destini diversi, che non s’assomigliavano ma solo s’incrociavano: coincidenze, le stesse, alle quali entrambi immancabilmente abboccavamo.
Nati soli, c’eravamo trovati senza esserci mai cercati. Partoriti da un mondo che sembrava non averci mai voluto, armonizzavamo le nostre paure e i nostri difetti unendoli: dolori completi, perfetti.
Perfetti e qualche volta felici: c’erano volte che ridevamo così forte che tutto si scuoteva, si risvegliava intorpidito.
Avrebbe potuto tremare persino la California.