La vide avvicinarsi quasi all’ultimo, quando solo pochi metri li separavano dal loro solito abbraccio mozza-respiro. Sembrava quasi diventata più bella nel suo nuovo vestito così sofisticato, le calze colorate, il cappotto leggero e la borsetta a tracolla. Non l’aveva mai vista con quegli abiti, era abituato a vederla in felpa e jeans (a volte maglioni, sempre larghi, sempre scuri), ma gli piaceva ugualmente anche così. Dopotutto, era pur sempre la sua Marta, la sua migliore amica.
“Gian! Ciao”. Quando lei lo vide in piedi davanti all’entrata del bar, agitò in alto la mano per salutarlo e gli rivolse un gran sorriso dipinto con il rossetto. Non lo metteva mai il rossetto, prima.
“Ciao Marta!”. Gian, anzi, Gianluca, le andò incontro e allargò le braccia per stringerla e farle sentire quanto le era mancata nelle ultime settimane. Marta aveva deciso di trasferirsi a Venezia per frequentare lì l’università, quindi non si vedevano da quando lei aveva cominciato i corsi. Brescia era troppo lontana dalla laguna per poter tornare giù ogni weekend.
Nel momento il cui stava per venire abbracciata, però, il viso di Marta assunse un’espressione allarmata. “No, no, Gian!” quasi gridò, “mi si stropiccia tutto. Davvero, come se ce lo fossimo dati, l’abbraccio. Questo cappotto è proprio nuovo, l’ho pagato tantissimo. A proposito…” fece una breve giravolta. “Ti piace?”.
Gianluca rimase sconcertato dalla reazione della sua amica: prima di allora non avrebbe mai rifiutato un suo abbraccio, nemmeno se fosse stato il giorno del suo matrimonio con un costosissimo abito nuziale. Ed ora faceva storie per uno stupido cappotto?
Si accorse che Marta stava aspettando che lui formulasse un giudizio sul suo abbigliamento, così la accontentò: “Sì, sì. È carino”.
“Sapessi quanto mi è costato… A Venezia costa tutto un sacco”. Non disse “Venezia”, disse “Venessia”, con la doppia esse sorda, proprio come se fosse veneta anche lei. Era fastidioso.
“Ci sediamo?”, tagliò corto Gianluca.
“Sì, sì, sediamoci!”.
Si accomodarono ad un tavolo, l’uno di fronte all’altro, come facevano sempre. Di solito cominciava sempre Marta a parlare, quindi Gianluca attese paziente che lei cominciasse a discorrere a ruota libera di come si trovava, com’erano le sue coinquiline, com’erano i corsi all’università. E rimase immobile per parecchi istanti, perché lei non parlò. Aveva tirato fuori dalla borsa uno specchietto e si sistemava i capelli.
Quello fu il primo silenzio imbarazzante della loro amicizia. Gianluca se ne rese conto immediatamente e subito dopo provò una sgradevole sensazione di disagio. Non gli piacque.
“Allora… mi racconti..” cominciò, prima che il cameriere arrivasse da loro per prendere l’ordinazione.
“Cosa vi porto?”.
“Un caffè macchiato freddo, grazie”, disse Gianluca.
“Macomecome?!” commentò ad alta voce Marta. “Sono le cinque di pomeriggio, cosa bevi il caffè a fare? Prendiamoci l’aperitivo. Per me uno spritz aperol, grazie. Anzi” ridacchiò civettuola “uno spriss”.
Di nuovo quella doppia esse sorda, che in quel contesto suonava come un campanaccio da mucca in un’orchestra di fiati. Erano a Brescia, non a Venezia. E gli spritz non si chiamavano così, si chiamavano pirlo.
Il cameriere si appuntò l’ordinazione, dopo aver guardato interrogativamente Gianluca per capire se anche lui voleva uno spritz (anzi, uno spriss). Lui rifiutò.
“Allora…” tentò di nuovo “come vanno le cose a Venezia?”.
“A manetta, mi piace davvero un sacco, sapessi quanto l’è bea. I ponti sono un po’ una scocciatura, ma ci si abitua. E le mie coinquiline sono proprio fora col ciaff”.
“Che vuol dire?”.
“Fuori di testa! Oh, scusa”, di nuovo quella risata civettuola. “Solo che ho preso a parlare come loro. Pardon”.
Gianluca non la interruppe più e ascoltò Marta che per venti minuti parlò a ruota libera della sua nuova vita universitaria, delle lezioni, dei mercoledì sera (“sai, c’è questa usanza per gli universitari”, disse lei, come se fossero una casta sociale esclusiva a cui lui non poteva accedere perché non aveva un numero di matricola), delle coinquiline e dei professori. Faceva pause solo per sorseggiare il suo spriss e, naturalmente, respirare. Dopo una tiritera infinita, Marta terminò il suo racconto e chiese a Gianluca:
“E tu, cosa fai?”.
Lui, un po’ imbarazzato (perché si sentiva a disagio? Cavoli, era pur sempre lei, sì, era Marta, la sua Marta!), raccontò qualche spezzone delle sue giornate: il lavoro, la sorella che stava per sposarsi, la band con cui aveva cominciato a suonare. Altro non c’era, ed evidentemente la sua vita era decisamente più noiosa di quella della sua amica, che sbadigliava senza nemmeno tentare di dissimulare la noia.
Marta lo interruppe dopo qualche minuto:
“Cioè, Gian, ma perché sei diventato così egocentrico? Sei cambiato tanto. Una volta mi ascoltavi di più, ora invece aspetti solo il momento giusto per parlare tu, come se di me non ti interessasse nulla. Puoi dirlo se non ti interessa, su, dillo!”.
L’altro ammutolì, rimanendo interdetto da quel commento fuori luogo. Ma se l’aveva appena ascoltata per mezz’ora senza interromperla? O no?
“Ascolta, io vado, sono di fretta. Ci sentiamo, neh?”. Marta si alzò e aspettò che Gianluca facesse lo stesso per salutarlo con due freddi baci sulle guance. Lui odiava quei baci, quegli schiocchi a vuoto dove le guance nemmeno si toccano e le labbra fanno di tutto per evitare l’altro. Sono i baci che dai a gente che non conosci più di tanto, o che non ti sta particolarmente simpatica.
Loro si abbracciavano, di solito. Ma non stavolta.
“Ci vediamo”.
“Ci vediamo, sì”.
E lei se ne andò, lasciando il conto da pagare a lui. Gianluca si sentiva triste, ma in fondo l’aveva immaginato: crescendo si cambia e lei aveva deciso di cambiare in una… studentessa universitaria veneziana.
Anche se era triste, in cuor suo non volle dirle addio.
Le augurò ogni bene, sperando che un giorno avrebbe rivisto di nuovo la sua Marta.