Rassegnazione. Uno stato d’animo che non conosceva Bene, il Professor Bene – si chiamava Bene davvero, come Carmelo Bene: uno con cui, nel tempo, avrebbe condiviso molte passioni. Un sentimento, un’inclinazione, un male incurabile o un semplice disturbo, quindi curabile. Aveva imparato a vederla, a riconoscerla negli altri e cercare di guarirla: si sentiva un medico in fondo, uno che si occupava dei piccoli e grandi mali di chi gli stava intorno. Lo faceva per lavoro, lo faceva per vocazione: lo faceva perché il suo lavoro era la sua vocazione. Aveva deciso già da piccolo che nella vita avrebbe curato le brutte sensazioni, gli sguardi velati di grigio, le nuvole nere; che avrebbe stuccato le piccole crepe, raddrizzato impercettibilmente le traiettorie; che avrebbe cucito le ferite in modo da permettere alla pelle di rigenerarsi dalla cicatrice, ma solo dopo aver disinfettato a fondo, con cura. Aveva deciso da bambino, con tutta l’innocenza e la tenacia del caso, di curare i ciliegi rossi perché gli sembrava che sanguinassero, come quel medico di cui scriveva De André. Dopo qualche esame di psicologia, per quanto amasse la psiche e avesse continuato a studiarla e guardarla – stupito, a bocca aperta – ogni giorno, si era trovato a correggere la sua di traiettoria. In maniera impercettibile. Era tornato alla letteratura inglese, al suo primo amore, al teatro, ai drammi di Shakespeare, ai suoi personaggi che al liceo l’avevano salvato e curato più di qualsiasi altra lettura. Aveva deciso – e la leggera svolta gli era sembrata inevitabile – che quel velo, quella patina grigia, avrebbe tentato di eliminarla al suo primo presentarsi, che avrebbe nei casi più fortunati impedito che si formasse. Aveva deciso di bruciarla, su un rogo, da dietro una cattedra. Anche se seduto dietro quella cattedra, animale da palcoscenico quale era, ci restava ben poco. Preferiva agitarsi, gesticolare, muoversi in un teatro immaginato che per lui – e per molti di quelli che lo guardavano – era davvero lì sotto i suoi piedi. E come lo immaginava bene. Camminava tra i banchi, raccontando della tragica amicizia che aveva legato Byron e Shelley; disegnava alberi genealogici e mappe alla lavagna raccontando di come Re Giacomo fosse succeduto ad Elisabetta I, col sorriso di chi era consapevole di non parlare della famiglia Forrester, ma di avere in quei momenti le impressioni a suo sfavore; correva dalla finestra alla porta disperandosi nei monologhi di Amleto e impazziva di gioia nei dettagli della Bishop. I ragazzi lo adoravano, da sempre, dal primo all’ultimo. I motivi erano i più svariati, ma lo adoravano tutti. Sapeva farsi amare, questo era indubbio, con il suo coinvolgimento, la sua passione, la sua semplicità e, soprattutto, la sua sincerità: le maschere le fiutano i ragazzi, più di chi è cresciuto, le fiutano e non ci credono. Le fiutano e non ti credono, e allora è finita. Era sincero e quando parlava, quando leggeva, quando spiegava, parlava di sé, leggeva di sé, spiegava di sé. Un libro aperto, cos’altro? Se volessi descriverti con un oggetto? Beh. Un libro, aperto, usato, consumato, sottolineato, evidenziato, scritto, con le pagine strappate e incollate con lo scotch. Un libro vero, sincero. Lo adoravano per questo i ragazzi che l’avevano capito: che avevano capito che parlava di loro, leggeva di loro, spiegava di loro. Chi non l’aveva capito lo adorava comunque, questo era il bello: lo adoravano perché era simpatico, di una simpatia un po’ bizzarra e triste a volte, ma comunque simpatico; lo adoravano perché le insufficienze con lui erano quasi impensabili, a volte passavano settimane perché riuscisse a concludere un giro di interrogazioni: «dai, metto solo un meno e ti risento domani, però ne tengo conto». Minacce al vento, lo sapevano bene quelle piccole volpi, e lui per primo; lo adoravano perché fingeva di non vedere gli sbadigli nelle ultime file o i bigliettini durante le verifiche. Per il motivo giusto o quello sbagliato, lo adoravano tutti. Non era mai triste, oscillava tra lo spaventosamente allegro e l’appena giù di tono: gli piaceva troppo il suo lavoro, la sua vocazione, perché potesse permettersi di varcare la soglia della scuola con un velo, anche appena accennato, di tristezza nei suoi verdi occhi miopi. Non era mai triste, come spesso accade di essere a chi è troppo intelligente, troppo sensibile. Sembrava aver superato anche quella soglia, c’era troppo entusiasmo in quell’omino di un metro e settanta scarso perché qualcuno, imbattendosi in lui, potesse avere l’impressione che fosse triste.
Non era mai triste, eppure quel giorno chi si fosse imbattuto nei suoi verdi occhi miopi, l’avrebbe potuto cogliere quel velo di tristezza. E senza possibilità di equivoco. Tornava da scuola, rientrava dalla moglie che lo aspettava per pranzo. I figli, ormai cresciuti, non vivevano più con loro. Spesso passavano per cena o per il pranzo della domenica, in fondo quella era sempre stata una casa piacevole, una famiglia piacevole. Anche se a lungo andare, vivere ogni giorno con tanto entusiasmo racchiuso in un metro e settanta scarso, poteva risultare pesante. Quotidianità, da poco cambiata e in procinto di cambiare di nuovo: poche settimane e il protagonista di quei pranzi domenicali sarebbe stato un esserino da tormentare, a cui insegnare a dire «nonno». Come poteva non essere entusiasta di quella vita? Rientrava a casa, in bici, lento. Godendosi il paesaggio, l’autunno, le foglie secche, il freddino di fine ottobre. La borsa di pelle in una mano, la stessa da ventisette anni, da quando aveva iniziato da insegnare, piena di appunti consumati, fotocopie, libri, penne, matite. Fazzoletti anche, non mancavano mai, aveva il vizio di commuoversi e non lo combatteva, come la sigaretta dopo il caffè. Rientrava a casa quel giorno, con un velo di tristezza: con il sentimento più vicino alla rassegnazione che l’avesse mai attraversato in quei ventisette anni di gloria. Era ottobre dunque, il 31: Halloween per i suoi ragazzi globalizzati, la Vigilia dei Santi per le signore del paese in fermento da giorni con il cambio fiori al cimitero. Non poteva rassegnarsi, non era da lui, non lo conosceva quel sentimento di calma piatta e delusa: eppure si sentiva soffocare, era bloccato, paralizzato. Sentiva gli angoli della bocca scendere verso il basso, le palpebre chiudersi, avrebbe quasi voluto piangere. Rientrava a casa, la moglie ad aspettarlo. Il cancellino, la bici da appoggiare al muro, lo scricchiolio delle foglie sul viale sotto i piedi, lo zerbino, la poltrona su cui poggiava la borsa, il corridoio, lo specchio, lo scorcio di salotto, la porta della cucina, il tavolo apparecchiato, la sedia da spostare, il gomito sul tavolo, pronto a reggere la testa: sembrava tutto, improvvisamente, più grigio. Che fosse quel velo? Cos’era successo? Chi era stato? Che gli avevano fatto? Un uomo inverosimilmente corazzato di romanticismo e ottimismo, di belle speranze, di buoni sentimenti. Cos’era accaduto?
La Viglia dei Santi, Halloween per quei ragazzi globalizzati, quei ragazzi che, per la prima volta in ventisette anni non aveva sentito suoi. Quei ragazzi che per la prima volta gli erano sembrati quelli raccontati dalla TV o da qualche collega che aveva sempre ritenuto superficiale. Cos’era successo? «Era una notte buia e tempestosa..» la lettura si era interrotta. Quale migliore scelta in quella mattina, se non le prime righe del Frankestein: in fondo per i ragazzi era Halloween. Quale miglior clima di quello che avrebbe creato il primo romanzo gotico, il più bello, il più conosciuto, il più romantico in fondo. Con quel mostro di cui avere paura, quel mostro da capire e poi amare. E poi piangere. Ma cos’era successo? L’aveva interrotta lui la lettura, per parlare con i suoi ragazzi com’era solito fare, per parlare di sé, di loro. Per raccontare delle storielle che da piccolo lo terrorizzavano, lo facevano stare sveglio al notte, lo paralizzavano sotto le coperte. Quelle storielle che poteva combattere solo con altre storielle, i suoi antidoti che poi diventavano poesie, drammi e romanzi, che poi diventavano il suo lavoro e la sua vocazione. Raccontava di come col tempo, anche ora che era quasi nonno – e decisamente non vedeva l’ora -, avesse continuato a credere: non ai mostri e ai fantasmi che diceva di aver conosciuto la sua di nonna, ma nell’esistenza di Qualcosa. Qualcosa che non lo teneva più sveglio la notte, che non lo faceva più sobbalzare durante i temporali. Qualcosa che non poteva vedere né toccare, qualcosa a cui non poteva dare un nome, né lo voleva fare. Qualcosa di grande, che lo appassionava e lo rendeva, giorno dopo giorno, quel professore adorato da tutti. Qualcosa che esisteva, anche se non ne parlava la TV, anche se non mandava messaggini da leggere di nascosto sotto il banco, anche se era solo suo. Qualcosa di magico. Qualcosa. Qualcosa da cui dipendeva tutto il resto. «Non ci crediamo più da un po’ ai mostri e alle fiabe, prof»: gli aveva risposto una ragazza in seconda fila, portavoce improvvisata di tutta la classe. Di tutta la scuola. Di tutta una generazione, la sua e di quelle future. «Non ci abbiamo mai creduto, io non ricordo nemmeno che me le raccontassero quelle storielle». E lì, in quel momento, aveva avuto paura. Un brivido improvviso, la voglia di correre sotto le coperte e trovare conforto nelle parole scritte da qualcuno tanti anni prima. Era rimasto fermo, impalato. Zitto, senza parole per la prima volta in quei ventisette rumorosi anni. Zitto per qualche secondo, un minuto, due, dieci. Non si ricordava nemmeno cosa fosse successo, non ricordava nemmeno il suono della campanella, il tragitto verso casa. Confondeva le parole con i pensieri, e i pensieri nemmeno arrivavano a definirsi. Ma com’è possibile? Credete solo ai fatti, a ciò che potete vedere e toccare? O comprare? Com’è possibile? Con il bisogno che abbiamo di credere. Se non avete creduto alle fiabe, se non avete temuto i mostri sotto il letto, come potete credere ora che ce la farete? Come potete credere di crescere per qualcosa? Non credete alla passione, all’amore? Alla forza che troviamo quando sembriamo non averne più? Non credete ai tramonti, alle foglie che cadono? Non credete che riuscirete a farcela, che è tutta una questione di pratica e di obiettivi? Non credete che non basti incrociare le dita e sperare che non vi interroghi? Non credete che quel sorriso possa cambiarvi la giornata, che quello sguardo possa cambiarvi la vita? Davvero non ci credete? Davvero non credete? Davvero siete come vi raccontano? Davvero siete come vi dipingono quelli che hanno smesso di credere? Non ricordava nemmeno quali domande fossero state parole ad alta voce e quali solo pensieri annebbiati. Forse veramente non aveva più aperto bocca da qual brivido. I pensieri però ora erano chiari, come la paura. Vicina, vera, la poteva vedere, forse anche toccare. Era rassegnazione quel grigio? Aveva creduto in qualcosa che non era vero? Ecco perché non poteva toccarlo. Aveva creduto in una vita che aveva solo immaginato? Se l’era chiesto per ore, minuti interminabili, affossato in quella poltrona su cui si era spostato senza toccare cibo. Se l’era chiesto, tremando, fino ad addormentarsi abbracciato alla sua borsa. Fino a che qualcosa lo aveva svegliato, un suono che ora si ripeteva, era il campanello. Che fosse stato un incubo? No, ora fuori era quasi buio, ma la penombra non rendeva il grigio del tardo pomeriggio meno evidente. Era tutto vero, un incubo sì, ma reale. Ancora il campanello, ancora lo scorcio di salotto sempre più grigio, lo specchio, il corridoio, la porta, grigia anche dal lato interno. La porta che si apre e rivela tre bambini: «dolcetto o scherzetto?». In fondo anche per loro era Halloween, avevano imparato questa tradizione dai telefilm americani e gli era piaciuta: non c’era stato modo di spiegare loro che qui in molti non avrebbero capito, che non sarebbero stati pronti con un vaso di dolcetti da distribuire a mummie e vampiri, che qui era il momento dei vasi di fiori che nascondono signore in corsa verso il cimitero. «Dolcetto o scherzetto?», ripetevano in coro quella principessina in rosa e i suoi fratellini più piccoli, due scheletri di misure diverse. Un attimo per riprendersi e un sorriso, seppure finto, forse il primo della sua vita. Un attimo: era preparato, il vaso con i dolcetti era pronto già dal mattino. «Sììì», finalmente qualcuno a cui non dover rispondere con uno scherzo. L’aveva preparato al mattino, per non deludere quei bambini che sapeva si sarebbero presentati. Ormai succedeva da qualche anno e questo non l’avrebbe colto impreparato. Eppure non l’aveva immaginato così, aveva immaginato di poter essere per loro quel sorriso oltre che il vicino con le caramelle. Aveva immaginato di conquistarli con le caramelle per poi raccontare loro una storiella di quelle che la notte lo tenevano sveglio. Non aveva immaginato il grigio, non la rassegnazione. Non l’aveva immaginato così. Poi eccolo, il vaso, le caramelle, un pugno per la principessa, uno per lo scheletro più alto e uno per quello più piccolo. Un sorriso finto, buona raccolta bambini, la porta che sta per chiudersi e una voce: «ringraziate bambini». «Graaziee». Ringraziate bambini? Chi ha parlato? Una figura adulta qualche passo indietro, un cappello da strega – o stregone? – indossato con un po’ di imbarazzo, un po’ per nascondersi, ma soprattutto per accontentare quei tre bambini per cui avrebbe fatto qualsiasi cosa: anche suonare alle porte dei vicini con un cappello viola a punta nonostante i sessant’anni suonati. Una figura adulta impossibile da distinguere per uno sguardo annebbiato. Un altro brivido, gli occhi che si stringono per vedere meglio, il sorriso finto che si trasforma in uno sguardo curioso. «Dai nonno andiamo, ci sono ancora tanti campanelli da suonare».
Un altro brivido, un sorriso vero a un sorriso finto. Il sorriso finto che diventa vero. I realtà non era come lo aveva immaginato, era meglio: e nessuna storiella, sapeva che quella li aspettava a casa.