“I bianchi credevano che, qualunque fosse il livello di educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla. Acque vorticose non navigabili, babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati, gengive rosse pronte a succhiare il sangue dolce dei bianchi. In un certo senso, però, avevano ragione. Più la gente di colore si sforzava di convincerli di quanto fosse gentile, intelligente, affettuosa, e umana, più essa si usava a pretesto per persuadere i bianchi di qualcosa che i neri credevano fosse fuori discussione, e più la giungla dentro si faceva fitta e intricata. Ma non era la giungla che i neri avevano portato con sé in quel posto dall’altro posto (vivibile). Era la giungla che i bianchi avevano piantato dentro di loro. E si allargava, si allargava prima, durante e dopo la vita”
C’è una donna, che osserva il fiume Hudson, e per la prima volta assapora il gusto di poter dare alla sua vita la forma che più desidera. Una tensione quasi irritante, tuttavia, si insinua nella sua mente, disturbando quella pace che invece, ora, dovrebbe gustarsi. La donna si innervosisce, e prova a capire, “Cosa mi succede?”. Poi si ricorda. C’è un libro, The Black Book, un’antologia che sta curando, in cui sono racchiusi più di trecento anni di storia afro-americana, compresi di atti di vendita, giornali, fotografie e altro. E d’un tratto è come se l’avesse davanti agli occhi, un vecchio articolo che aveva letto. Lei era Margaret Garner, schiava fuggita dal Kentucky negli anni della Guerra di Secessione Americana, accusata di aver ucciso la sua bambina e aver tentato di ammazzare gli altri tre, prima che i bianchi potessero ricondurli giù, nell’oscurità del loro inferno. Quell’articolo di giornale era il romanzo che aspettava, la storia che doveva essere raccontata.
Così Toni Morrison dà vita alla sua opera più importante, “Amatissima”, Beloved nella versione originale in cui si riprende il nome della vera protagonista. Perché tutti hanno una voce nella Storia, tranne quelli a cui il silenzio viene imposto da una forza più grande, incontrollabile. Per questo Toni Morrison decide che Beloved, la figlia mai amata, o la figlia troppo amata, l’anima che non comprende le ragioni dell’oscurità umana, lei deve essere la voce principale di questo romanzo. Deve tornare, arrampicarsi tra le rocce di un fiume, trovare un volto che la ospiti, sfuggire al limbo delle anime bruciate senza ragione, e risalire verso la luce. Beloved deve trovare vendetta, deve perseguitare sua madre, o riprendersela, perché il sorriso di sua madre appartiene a lei, e lei, Beloved, è la sua parte migliore, quella che l’aiuterà a dimenticare il dolore di una schiena divisa in due dalla frusta, come un albero che genera i fiori della sofferenza.
Un mito che attinge dalla realtà, o una realtà che ha bisogno del mito per essere raccontata. Le antologie racchiudono i fatti, e i romanzi li spiegano. E come una canzone di sottofondo che accompagna il racconto di Sethe e Beloved, il coro delle anime perdute emerge con prepotenza aiutando a comporre il quadro della Storia. Uomini impiccati, arsi vivi, castrati, costretti a dormire tra i maiali con un morso di ferro che gli impedisce di parlare e un collare che li lega come i cani. Donne costrette a figliare come bestie con uomini diversi-bianchi molto spesso-, separate dai loro figli rivenduti ad altre piantagioni per ripagarne i debiti. E bianchi, proprietari terrieri, che insegnano ai loro bambini i tratti che accomunano bestie e neri. “Cattle”, bestiame, così fino almeno alla metà degli anni’50, molti bianchi Americani definivano i neri costretti nei ghetti dalla segregazione.
Questa era l’America della Secessione, questo è un romanzo del 1987. Perché, allora, rileggere questo libro oggi? Perché quegli Americani erano Europei una volta, perché le mani sporche di sangue non si lavano via facilmente, perché oggi si permettono accostamenti al bestiame, qui, dove viviamo, e nessuno alza lo sguardo verso se stesso. I libri aiutano a capire, e Toni Morrison usa un linguaggio meraviglioso.