Bruce Chatwin nacque il 13 Maggio del 1940 nella cittadina inglese di Sheffield, in un periodo in cui l’intera Europa si preparava al quinquennio più duro della sua storia. Figlio di un ufficiale di marina, trascorse l’infanzia prevalentemente con la madre che si spostava da un punto all’altro del paese in cerca di rifugio presso parenti ed amici. Una sorta di imprinting al viaggio gli fu trasmesso dalla famiglia come racconta lui stesso in un passo del suo libro “Le vie dei Canti”:
“Un giorno zia Ruth mi disse che un tempo il nostro cognome era “Chettewynde”, che in anglosassone significa “sentiero serpeggiante”, e cominciò a germinare nella mia testa l’idea che tra la poesia, il mio nome e la strada ci fosse un nesso misterioso” (Le vie dei Canti, Ed Adelphi 1987, pp 21)
Crescendo, Chatwin sviluppò anche una acuta passione per l’arte di cui divenne a soli vent’anni un buon estimatore e fu proprio negli anni “60 che trovò un impiego presso la casa d’aste londinese Sotheby’s occupandosi di catalogazione di opere per lo più figurative e cubiste. L’impeto alla conoscenza di realtà geografiche e culturali distanti da Londra e dall’Europa lo portò ben presto ad apprezzare l’arte africana, cinese ed asiatica sostenendo in lui la scelta di lasciare tutto e partire. Nel 1969, abbandonati gli studi di architettura, cominciò ad interessarsi di Archeologia e con la giovane sposa newyorchese Elizabeth Chanler (si sposarono nel 1965) organizzò i suoi primi importanti viaggi. Soggiornò alcuni mesi in Afghanistan, Perù, Russia raccontando di quei luoghi e di quelle culture in reportage per il Sunday Times Magazine dove fu accolto con interesse per quel suo modo così naturale e quasi spregiudicato di intervistare i potenti di quelle terre. L’incontro con la scrittura dunque avvenne attraverso il giornalismo e Chatwin poté sperimentare il suo stile collaborando con svariati periodici a tiratura internazionale come “Vogue”, “History Today” e “The New York Review of Books”.
Tuttavia questo tipo di approccio alla comunicazione del suo concetto di effimero, del fugace mondo stanziale della società occidentale, andava stretto, così scelse la strada più impervia del ruolo di scrittore avendo come modelli Kipling, Hemingway, Whitman, ed altri narratori che trattavano tematiche legate ai viaggi , alle esplorazioni nonché alle società più remote della Terra.Al suo progetto di una letteratura itinerante , del racconto diretto ma al tempo stesso edulcorato dalla propria fantasia, affiancò la fotografia di cui ancora oggi restano importanti progetti e mostre personali.
Il 1974 segna un evento importante nella vita dello scrittore. Fu inviato dal suo giornale a Parigi ad intervistare la novantatreenne architetta Eileen Gray e fu attratto da una mappa della Patagonia che campeggiava nel salotto della sua casa . In un momento, con il sostegno della anziana professionista, decise di partire per quell’aspro territorio. Fu l’inizio della sua carriera di scrittore. Come dichiarò lui stesso:
“Sono andato in Patagonia. Sei mesi dopo tornai con l’ossatura di un libro, che questa volta arrivò ad essere pubblicato- Mentre cucivo insieme le frasi, riflettevo che raccontare storie era l’unica occupazione concepibile per una persona superflua come me-La carta di Eileen Gray adesso è appesa a casa mia. Ma il futuro è incerto” (tratto da Anatomia dell’Irrequietezza, ed Gli Adelphi, 2005, pp29).
“In Patagonia” viene pubblicato nel 1977 riscuotendo un enorme successo; a metà fra romanzo autobiografico, diario di viaggio e reportage naturalistico il libro suscitò curiosità ma anche grande interesse per la profonda erudizione dell’autore e per la capacità di attrarre ed avvicinare il lettore in quell’avventuroso viaggio in territori remoti e tra confini esistenziali.
Nel 1980 Chatwin pubblicò “Il vicerè di Ouidah” dove si affronta il tema della tratta degli schiavi nello stato del Benin. La scrittura è essenziale, spesso poco attraente per il genere del romanzo eppure prevale in Chatwin una modalità artificiosa nel narrare fatti e personaggi tuttavia accostati a luoghi reali che descrive con la minuzia di un dipinto. Nel 1982 fu la volta di “Sulla collina nera” dove per la prima volta non tratta del tema del viaggio. In “Le vie dei Canti” (pubblicato nel 1987) racconta degli aborigeni australiani esaltandone la vita nomade ed il loro misticismo ma in alcuni passaggi, fatti e personaggi sono di pura invenzione, come per edulcorare o estremizzare intenzionalmente le vicende del libro. Molti detrattori ma anche suoi sostenitori hanno intravisto questi ed altri difetti della letteratura chatwiniana eppure la sua fama non è mai stata veramente scalfita tanto che Chatwin è riuscito nel suo intento di descrivere una “anatomia dell’irrequietezza” e di tentare di rispondere alla domanda sul “perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all’altro?”
L’ultimo romanzo, scritto un anno prima della morte, si intitola “Utz” ed è una sorta di thriller ambientato nel mondo del collezionismo sullo sfondo di una Praga ancora oppressa dal regime comunista Una raccolta di sue lettere interviste, riflessioni è stata pubblicata postuma negli anni ’90 nei libri “Che ci faccio qui”, “Anatomia dell’irrequietezza”, “L’alternativa nomade” curati dalla moglie Elizabeth e dall’amico critico letterario Nicholas Shakespeare.
Nel 1989 Bruce Chatwin,il maestro degli irrequieti, si spense dopo una lunga lotta contro l’AIDS, lasciando una grande eredità nel panorama letterario e della cultura geo-etnografica dell’ultimo secolo.