Lasciare New York non è mai facile, cantavano i R.E.M. E non lo è neppure per il viaggiatore, turista, esploratore che capita dalle parti di Manhattan. Le luci intermittenti, il frastuono dei clacson, la musica degli artisti, il suono di una miriade di lingue diverse, i profumi di Central Park sono un set cinematografico sul quale si riprende la vita di milioni di abitanti. Chi non è restato affascinato dalla frenesia delle sue avenue e dal silenzio delle chiese, non può dire di esserci mai stato. È una città che non dorme mai, si sa, lascia svegli a sognare o a sperare.
Prima o poi però la tela si buca. Le luci si spengono, le bocche si chiudono, gli occhi si aprono, i suoni si fanno silenzio. Resta una pantomima vuota e sterile, un paesaggio amorfo e straniero. È quello che vedono due scrittrici americane nel lasciare New York, la città che le ha ammaliate, senza la quale non avrebbero potuto vivere o realizzare i propri sogni. New York per loro diventa un luogo nel quale è impossibile restare. Le comodità, il lusso, la modernità, le possibilità lasciano il posto ad altro.
Cheryl Strayed nel suo Tiny Beautiful Things: Advice on Love and Life from Dear Sugar, ricorda come fosse “abbagliata da New York. I suoi parchi e i musei, le strade e le avenue. La sua a tratti efficiente e disastrosa metropolitana. Le bellissime donne in pantaloni attillati, con scarpe dai tacchi vertiginosi, pronte ad uccidere”. D’un tratto però tutto cambia, forse fu il fatto “di vedere un uomo accoltellato e nessuno che se ne preoccupasse. O forse qualcosa più grande di quello. […] L’indifferenza, l’evitare lo sguardo degli altri nella metropolitana o nelle strade affollate dove mi sentivo aliena come su Marte”. Perfino la coppia che gestisce il piccolo negozio di alimentari all’angolo non mostra un minimo senso di familiarità, nonostante ci andasse a fare la spesa ogni giorno. Non uno sguardo, non un gesto. Prendevano soldi e davano il resto come fossero dei robot. Questo allora diventa il più grande crimine commesso in città: “la negazione della familiarità, del sorriso, di un cenno del capo”. Cheryl dice addio a New York come si lascia un amante: in maniera fredda e distaccata perché, in fin dei conti, non ne era innamorata e non aveva nessun motivo urgente per restare.
Anche Roxane Gay nel suo Ayti ricorda l’infatuazione iniziale che il fascino della City aveva acceso in lei. Lo scintillio della vita, le tragedie umane e gli eroici successi si celebravano ad ogni angolo di strada, ai semafori, nelle porte girevoli dei grattacieli. Voleva andare a New York, per scrivere, perdersi nella ragnatela di strade, mischiarsi alla folla di pazzi per restare finalmente inosservata. The City era il luogo dove si diventava scrittori, dove c’erano gli editori più importanti e i pubblicitari senza scrupoli. E lei voleva scrivere. Tuttavia “ad un certo punto, New York smise di essere la città dei miei sogni perché non era più la mera idea di cui volevo far parte. New York era reale e complicata. Era diventata un gigante minaccioso […] una terra straniera, come lo ero io e lo sarei sempre stata”. Roxane diventa scrittrice senza il glamour e l’anti-conformismo newyorkese di cui credeva avesse bisogno. Le sue convinzioni cambiano a intermittenza come le insegne al neon dei night club e dei drugstore, i suoi credo si riempiono di dubbi come le strade di Manhattan all’ora di punta. Allora le viene facile dire addio alla città. In realtà non le aveva mai detto “CIAO”.