Settecent’anni dopo il sogno del Poeta
il Signor del Buio tornò a guardare il mondo
vi vide l’uomo di sé cacciatore e preda
vi vide vivi su un suolo moribondo,
un cielo nero che non mostrava luce
seppur tra gli astri ancor girava in tondo.
E vide alcuni, lì dove il sole coce,
barattar’ il vil’ danaro per la vita
spargendo ovunque un fumo nero e atroce
su di una terra mille volte già tradita
Terra Felice conobbe mala sorte.
Ogni ragione per quel nome era sparita.
Tornando indietro nel suo regno della notte
non vide colpa fosse mai così feroce
né pena adatta a chi infligge quella morte.
E incominciò, impastando merda e pece,
a costruire il decimo girone
immaginò e in una notte fece
il più infame cerchio di dannazione.
Al centro del girone v’era un lago
dov’ acqua nera ribolliva di veleno
e come fosse dalle viscere di un drago
dal suolo divampavano nel cielo
fruste di fuoco che duravano un istante
lasciando nello spazio un nero velo.
Dal lago si vedeva assai distante
un altopiano che circondava quel creato
solcato da un sentiero solamente.
Lo percorreva chi si era destinato
a rimaner per l’altra vita in questo inferno
laddove il fumo dalla gola ruba il fiato
dove il respiro porta in sé dolore eterno.
Un fiume morto scorreva in quegli immensi
cantando note di gemito e sgomento
per punire attraverso i cinque sensi
fece così il migliore dei suoi giochi
per contrappasso il Nero Re colpiva gli empi
che Campania Felix osaron’ far’ Terra di Fuochi
Finiva lì ogn’anima dannata
che avesse acceso anch’uno di quei fuochi
con propria mano o per vil’ imbasciata.
Morivano di nuovo tra quei roghi
poiché non solo furono assassini
ma furon’ anche suicidi e traditori.
Enormi falli di fumo nero e d’ ossa
violavano degli empi ogni pertugio
con piedi e mani scavavano una fossa
con l’ unghie e le falangi senza indugio.
Vedevano in delirio i propri amanti
e a lor’ porgevan’ i pomi del contagio
contaminati da quei frutti ardenti
finivano nel fosso ora scavato
con tra le labbra code nere di serpenti.
Gridava tra la nebbia il condannato
che più urlava più gli finiva in gola
in preda a quel rimorso disperato
di chi ha una madre e la lascia morir sola.
Non v’era Lete per dimenticar’ gli errori
sapevan’ bene le ragioni di quel morbo
la verità era il più forte dei dolori.
Con bozzi neri a ricoprirne il corpo
ed altri dentro a provocar tormento
coi palmi a terra e con lo sguardo orbo
muovevano i dannati controvento
accovacciati, col naso a poche dita
dalla fanghiglia dal puzzo virulento.
Intorno al cerchio dopo lunga salita
sull’ altopiano finiva incatenato
chi ferm’ immobile fosse rimasto in vita.
Poiché l’Altissimo chiede all’usurpato
di muoversi in difesa della terra
curando in parte, il danno del ferito.
Lì v’ero anch’io che mai son sceso in guerra
e curo la mia rabbia con parole
come chi lotta e un colpo d’aria sferra
e pretende di difendere la sua prole.