I piedi di Lina erano bellissimi. Non avevo mai visto nulla del genere. Rotonde le punte delle dita, sembravano cinque collinette, una dopo l’altra disegnavano una forma che a guardarle ti veniva da dirle «Sono proprio simpatici i tuoi piedi!».
«Eh sì, proprio così, non a caso sono i miei!» esclamava lei compiacendosi tutta.
E infatti, non so per quale strana alchimia corporea, quei piedi erano divertenti, disinvolti, esprimevano un carattere che, non poteva essere attribuito a un piede, ma semmai ad un essere umano. Quel tipo di sensazione, la simpatia, capita di incontrarla quando si conosce una persona, ma mai mi era successo niente del genere con un piede. E invece, i piedi di Lina, diffondevano una simpatia che tutti riconoscevano e non era frutto della mia fantasia distorta, lei stessa lo riconosceva e diceva proprio così:
«Me lo dicono tutti che sono simpatici i miei piedi.»
Il discorso per quanto riguardava me era ben altro. Se pensavo ai miei, di piedi, le cose non andavano proprio come a Lina. Non mi erano mai piaciuti quei due cosi magri e scarni, attraversati da lunghe vene verdi e viola che completavano il mio corpo, giù giù là in fondo, al termine delle gambe. Erano troppo lunghi e le dita sproporzionate rispetto a tutto il resto. L’alluce lunghissimo e le altre dita dalle forme più disparate e disomogenee. Le unghie poi, che non ero mai riuscito a tagliare con una certa eleganza (come se fosse possibile tagliare le unghie dei piedi con eleganza), non davano certo una bella impressione a guardarle. Tutte di misure diverse, mezze storte e mezze piegate. «Chi ha dei brutti piedi è una brutta persona» avevo sentito dire da qualcuno, non ricordo quando. Era proprio così? Chi ha dei piedi callosi, spigolosi, troppo magri o troppo grassi, disuniformi, giallini, verdini, troppo piatti o troppo lunghi è una brutta persona? Chissà, forse non è proprio così, perché allora potrebbe essere così per qualsiasi parte del corpo. Chi ha brutte mani è una brutta persona? Chi ha brutte orecchie o brutti gomiti è una brutta persona. E invece ho conosciuto persone con brutte orecchie ma di grande spirito, magari con bellissime mani e gambe. Ci si potrebbe perdere per ore dentro questo tipo di discorsi se non per arrivare a chiedersi cos’è la bellezza?
Io però dei miei piedi mi ero sempre vergognato. Non mi piacevano e pensavo fossero brutti e per questo motivo li ho nascosti per anni. D’inverno andava tutto bene, perché calze di lana e scarpe pesanti li coprivano abbondantemente, ma d’estate tutto cambiava. Un paio di sandali, un infradito? No grazie, rispondevo a chi mi osservava incredulo a quaranta gradi in pieno sole con scarpe da ginnastica e calzino di spugna. «Preferisco avere i piedi protetti perché è un attimo farsi male, che ne so, spezzarsi un unghia o prendersi un vetro e tagliarsi. Poi son dolori». Questa la versione ufficiale del mio rifiuto per il piede scoperto e intanto lanciavo anatemi contro chi si era permesso di fare un appunto sul fatto che indossassi un paio di scarpe in piena estate. Al mare o in piscina certo non potevo sottrarmi dall’indossare sandali o infradito, ma cercavo di limitare le uscite stagionali e riducevo al minimo il tempo di “esposizione piedi” alla vista delle altre persone.
Con le donne ancora peggio. Altro che mare e piscina. All’inizio mi vergognavo molto, li nascondevo, ma dopo poco non era più possibile e quindi mi rassegnavo a mostrarli come mostri ai quali la sfortunata di turno doveva arrendersi. Mettevo in scena così tutto il mio odio, fatto di piccole ossessioni e grandi silenzi: «eccoti il mio brutto piede, abituati perché questo ho e se prendi me prendi anche lui». Era come se svelassi loro il tremendo segreto che bruciava me e lentamente anche le storie con loro. Ogni volta che mi lasciavano, la prima cosa a cui pensavo era che lo facessero perché in realtà non odiavano me, come dicevano prima di andarsene sbattendo la porta, ma odiavano i miei piedi.
«Odio i tuoi piedi, non li sopporto più e me ne vado per questo! Addio!»
Una dopo l’altra uscivano dalla mia vita confermando al mio sguardo accecato quanto brutti e antipatici fossero i miei piedi che diventavano così, il male di tutti i mali, portandomi quasi alla disperazione.
Tutto ciò era successo qualche anno fa, poi, nel tempo, avevo trasformato l’idea attorno ai piedi che ora, grazie anche a Lina, erano diventati due semplicissimi piedi, certo non bellissimi, ma nemmeno capaci di decidere le sorti del mondo e soprattutto le mie.
Mentre osservavo i piedi di Lina che si stava mettendo lo smalto alle unghie, il calore della giornata estiva spingeva da dietro la porta chiusa. L’aria condizionata diffondeva il suo refrigerante soffio all’interno della casa. Lei era quasi completamente nuda, indossava delle mutandine bianche di cotone con delle righe rosse ricamate in verticale. I capelli scuri ancora bagnati dopo la doccia, erano raccolti sulla spalla destra, donandole un aspetto di assoluta rilassatezza.
«A che pensi?» mi chiese d’un tratto come faceva quando sentiva che stavo pensando a qualcosa che mi portava lontano da lei, quasi come a chiedermi di restare, per non lasciarla sola nel silenzio delle parole non dette.
«L’inverno scorso mi è successa una cosa strana che non ti ho mai raccontato»
«E che cosa?»
«Di quella volta che ho camminato scalzo nel campo.»
«E cioè?»
Iniziai a raccontare a Lina di quel giorno di febbraio in cui ero andato a fare una passeggiata appena fuori città, in una zona poco trafficata, dove verso le due del pomeriggio non passa proprio nessuno. Dall’argine dove corre la strada di ghiaia bianca, si poteva scendere per accedere a dei campi non coltivati in quel periodo dell’anno, ma ben tenuti, pronti per essere seminati non appena l’inverno sarebbe passato. Attirato da non so cosa, dal colore della terra e dalla temperatura mite della giornata soleggiata, mi ero addentrato nel campo. Ad un tratto avevo sentito il desiderio fortissimo di togliermi le scarpe e camminare a piedi nudi sulla terra. Non riuscendo a resistere a quella chiamata l’avevo fatto. Ricordavo ancora la sequenza precisa di quei momenti. Avevo sollevato il ginocchio destro per slacciare la Timberland e una volta tolto anche il calzino avevo ripoggiato il piede sopra la scarpa. Allo stesso modo mi ero comportato per togliere la sinistra e mi trovavo con entrambi i piedi sopra le scarpe, pronto a muovermi come se stessi per fare il primo passo sulla luna. Quello davanti a me, però, non era il suolo lunare, ma un semplicissimo campo di terra scura e gelata dal freddo nel quale dopo qualche mese, qualcuno, avrebbe piantato qualcosa. Non mi decidevo ad andare, fintanto che appoggiai il piede destro sulla terra e subito dopo anche il sinistro. Rimasi immobile qualche secondo. Un brivido denso e duro, ghiacciato, percorse tutto il corpo che reagì chiedendo alle gambe di proseguire nel movimento, di non fermarsi proprio allora. Feci un passo e poi un altro ancora e provai una sensazione totalmente nuova. Sentivo la porosità della terra entrare in contatto con la pianta del piede che veniva graffiata da pezzetti di erba secca e sassolini presenti nell’impasto secco, impossibile da scalfire. Le zolle più grandi rendevano impervio il cammino che passo dopo passo diventava sempre più difficile. Ero costretto a tenermi in equilibrio aprendo le braccia, come fa l’acrobata sulla fune tesa, ma sotto di me non avevo il baratro, ma un tappeto di sensazioni sconosciute e interessantissime.
«Ehi lei! Cosa fa sul mio terreno? Guardi che non si può passare di qua. È proprietà privata!»
Mi voltai in direzione della voce. Era il proprietario del terreno che mi veniva incontro con sguardo deciso ma non minaccioso, invitandomi con i modi della gente di qui ad andarmene.
«Buongiorno, sì, mi scusi, me ne vado subito, sa, ehm, come dire, sì, me ne vado» alzai la mano scompostamente come per salutarlo, procedendo verso le scarpe come Lupin quando cammina sui vetri per fuggire dal commissario Zazà.
«Guardi che se cammina in giro senza scarpe, rischia che si becca un chiodo o una spina e il tetano. E fa male. Cosa le salta in mente?» Dicendo tetano, aveva piegato la testa sulla spalla sinistra, dandomi come l’impressione che lui ne sapesse qualcosa. Forse aveva visto qualcuno morire per quella terribile malattia? Oppure se l’era preso lui da bambino mentre giocava nelle campagne dietro casa?
«Le sconsiglio di fare così, lo dico per la sua salute, mica perché è il mio campo. Cosa vuole che interessi a me se lei cammina per di qua.»
Ora pure mi sgridava. Decisi che non era il caso di spiegare i motivi per cui ero arrivato fin là, mi ero tolto le scarpe e avevo camminato per qualche passo, motivi che precisamente non conoscevo nemmeno io. Così mi affrettai ad indossare velocemente calze e Timberland, a salutare, e andarmene.
«Arrivederci e mi scusi ancora» dissi al contadino che mi guardava perplesso incrociando le braccia dietro la schiena. Abbassò il capo in segno di assenso e saluto e restò là a guardarmi mentre salivo la china scoscesa dell’argine.
Mentre camminavo, sentivo ancora la sensazione della terra fredda sotto i piedi e avevo come l’impressione che nella fretta qualche pezzetto di terriccio fosse rimasto attaccato al piede e ora con il calore si stesse frantumando sotto la pelle. Ciò non mi dispiaceva, anzi, ero lieto di portare con me ancora un po’ quella sensazione ruvida e aspra che mi aveva sedotto non appena avevo messo i piedi sulla terra.
«E poi cos’è successo?» chiese Lina.
«Niente, me ne sono tornato da dove ero venuto. Sono andato a casa e mi sono fatto la doccia. Togliendomi i calzini, alcuni pezzi di terra erano caduti sul pavimento e ricordo di averli presi in mano e osservati per qualche secondo. Chissà che cosa mi era preso.»
«Vieni ad abbracciarmi, dai.»
Mi alzai dalla sedia e la raggiunsi. Il suo corpo profumato fra le braccia era morbido, mi chiedevo cosa avesse a che fare con quel campo, e sentivo che qualcosa in lei mi attirava, com’era accaduto quel giorno in cui camminai a piedi nudi sulla terra.