“Una frase di Cardarelli poteva scoraggiare per sempre, un suo giudizio sibilare e colpire, lasciando il segno. Chi lo ha conosciuto ricorda il suo caloroso, affascinante discorrere nel corso della passeggiate notturne attraverso una Roma sgombra e cordiale, o durante le soste all’Aragno o alla bottiglieria toscana di Tito Magri, in Via Capo le Case.”
Libero Bigiaretti nella prefazione all’opera “Villa Tarantola ed altri racconti” tratteggia in modo schietto e preciso il compianto amico e scrittore Vincenzo Cardarelli citandone, tra le altre cose, l’esemplarità della scrittura, lo stile impeccabile ma anche il carattere impulsivo e solitario che lo hanno spesso etichettato alla stregua di un misantropo.
La storia personale di Vincenzo Cardarelli non entusiasma per fascino o stravaganza, tutt’altro, è la storia di un uomo che nasce povero ed isolato e diventa un grande scrittore per poi essere quasi abbandonato all’oblio.
Figlio di Giovanna Caldarelli, nacque a Corneto di Tarquinia (oggi Tarquinia) il 1 Maggio del 1887 (registrato all’anagrafe Nazareno Caldarelli) e suo padre, il commerciante marchigiano Antonio Romagnoli, iniziò ad occuparsi di lui solo dal 1890, alla morte della madre. La figura paterna, nonostante una relazione superficiale e distaccata che condizionerà lo sviluppo del carattere del futuro scrittore, fu spesso ricordata nelle sue opere quasi in funzione catartica.
Nell’ambiente semplice ed umile di un paese della lontana provincia romana, il Cardarelli crebbe con l’aiuto di alcuni zii e parenti materni e paterni, aiutando saltuariamente il padre nel commercio ambulante. Poté quindi dedicare solo pochi anni all’istruzione regolare nonostante una entusiastica predisposizione allo studio ed alle lettere mai accettata dal padre. Come scrisse nel premiato “Il sole a picco” (vincitore del premio Bagutta nel 1929) : “il paterno scetticismo didattico e culturale non mi concesse nemmeno la modesta uniforme del convitto di Amelia, dove sospiravo d’entrare…Cosicchè, se proprio ci tenete a saperlo, io appartengo a quella difficile, ombrosa e variamente stimata categoria di persone che hanno studiato e si sono fatte da sé”. (pp 50,cit.)
Il primo viaggio del giovane Vincenzo,povero ed affetto da una menomazione ad un braccio, fu una fuga ed una rottura definitiva dalla casa paterna. Aveva solo 19 anni quando giunse a Roma, carico di speranze per il suo futuro ma compromesso nel fisico e nelle risorse. Lavorò come garzone di bottega, operaio in una piccola azienda di orologi per poi diventare trascrittore di documenti presso uno studio legale passando per altri impieghi. Durante i primi anni dell’esperienza romana perfezionò le sue letture e la sua preparazione era del tutto assimilabile a quella di uno studente universitario.
Per questo nel 1910 ottenne un incarico editoriale all’Avanti! ma collaborò anche con la rivista letteraria Marzocco, frequentata tra gli altri da Enrico Corradini e Gabriele D’annunzio e poi alla Voce . In quegli stessi anni frequentò l’ambiente letterario romano conoscendo Sibilla Aleramo con la quale ebbe una tormentata liason amorosa, entrando in contatto con quelli che saranno i suoi futuri “colleghi” rondisti: Riccardo Bacchelli, Antonio Baldini, Bruno Barilli. Nel 1916 Cardarelli pubblicò la sua prima opera dal titolo “Prologhi”, raccolta di cinque racconti intimisti e fortemente evocativi. L’assennata ricerca dello stile perfetto e di una liberazione della letteratura dalle momentanee e spregiudicate formule decadentiste , ermetiche e futuriste furono il leit motiv della attività intellettuale del Cardarelli e ciò non gli evitò aspre critiche che accolse sempre con temperamento e rispetto.
Nel 1919 la svolta intellettuale e professionale. Diventò direttore ( e tra i fondatori) della rivista La Ronda che raccolse collaboratori ed esperienze degli intellettuali più letti e criticati del momento. Tra i più legati al Cardarelli vi furono il già citato Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Vilfredo Pareto, Ardengo Soffici, Carlo Carrà, Filippo Burzio.
La rivista apparve dalla sua nascita come uno strumento per polemizzare contro il futurismo e le false mitologie dannunziane che negli anni appena precedenti il primo conflitto mondiale, avevano depauperato la qualità delle produzioni letterarie trascurando l’elemento stilistico. Il Cardarelli, quale principale animatore esplicitò un riformismo in chiave classica, un ritorno all’ordine che ripulisse formalmente qualsiasi componimento sul modello dei classici dell’antichità greco e latina ma soprattutto sulla scorta delle Operette Morali e dello Zibaldone del Leopardi, considerato dallo scrittore romano un vero maestro che “intendeva scrivere in una lingua non morta ma sempre viva”.
Significativo è il prologo in tre parti pubblicato su la Ronda nell’Aprile del 1919, a firma di Cardarelli in qualità di direttore, un vero e proprio manifesto dei principi della rivista: “Per ritrovare, in questo tempo, un simulacro di castità formale ricorreremo a tutti gli inganni della logica, dell’ironia, del sentimento, ad ogni sorta di astuzia. Non ignoriamo del resto che se la nostra lingua ha regole prescritte e il nostro alfabeto esisteva appena da qualche secolo che già il genio preistorico dei nostri antichi ne aveva sfiorato e immortalato tutte le lettere, dall’alfa all’omega, ciò che importa è il variare delle correnti fresche e salutari dello spirito che mutano l’ambiente.”
Ritorno del rapporto tra lo scrittore e l’ambiente che lo circonda, separazione netta fra arte e politica, richiamo ad un classicismo riformatore che è cosa diversa dal neoclassicismo, questi essenzialmente furono i concetti espressi dai rondisti e la produzione dello scrittore di Tarquinia li sintetizzò pienamente.
Le sue prose (definite prose d’arte) come le produzioni liriche , sono opere smaniose del tentativo di una perfezione stilistica che soltanto i grandi maestri della nostra letteratura, in primis Leopardi, poterono realizzare.
Natura, luoghi della memoria, aneddoti ed amicizie passate vengono descritti con espressione elegiaca ma con caratteristiche simili al naturalismo francese per il realismo che il lettore può quasi palpare.
Viaggi nel tempo (1920), Favole e memorie (1925), Parole all’orecchio (1929), Parliamo dell’Italia (1931) sono alcuni degli scritti in prosa che al tramonto del primo ventennio del “900 si scontrarono con una prosa dilagante di sensazioni parnassiane e visionarie.
Pur reggendo brillantemente il paragone con la letteratura del suo tempo, gli scritti del Cardarelli furono quasi accantonati dopo la II guerra Mondiale sebbene nel 1948 con “Villa Tarantola” vinse il premio Strega a suggello del riconoscimento di una prosa forbita come la formazione dello scrittore e che aveva il sapore di una severa tradizione.
Viaggiò molto e fu quasi un nomade tra l’Italia e l’Europa, alla ricerca del dibattito, lui stesso fomentatore e moderatore in circoli letterari ma sempre solo, quasi ramingo e povero. Viveva il più delle volte del buon cuore di amici e scrittori che gli davano ospitalità e la sua casa erano le locande o piccole camere ammobiliate finché decise di tornare a Tarquinia dopo la Guerra per un ritorno alle origini che lo incuteva ma allo stesso tempo era necessario per ritrovare il so “paradiso in terra”.
Proprio della terra etrusca e dei suoi miti sono pregne le sue poesie, riepilogate una prima volta nel 1936 (Poesie) e successivamente nel 1942 (Poesie nuove).
In tali liriche, che un lettore moderno trova estremamente attuali, sono ripilogati gli argomenti cari al suo autore: l’amore,la riflessione sulle stagioni, metafora del tempo che scorre, le relazioni umane.
Ha tanto amato Cardarelli ma anche sofferto come questo frammento della poesia “Attesa” ben testimonia:
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Oggi che t’aspettavo non sei venuta.
E la tua assenza so quel che mi dice,
la tua assenza che tumultuava,
nel vuoto che hai lasciato,
come una stella.
Dice che non vuoi amarmi.
Quale un estivo temporale
S’annuncia e poi s’allontana,
così ti sei negata alla mia sete.
(Attesa, Poesie, cit.)
Tornato a Roma intorno al 1946, la sua precaria salute e l’instabilità economica lo portarono a vivere quasi come artista di strada, frequentando i Bar di Via Veneto dove viveva.
I suoi ultimi anni romani furono raccontati da Ennio Flaiano ne “La solitudine del satiro” dove Cardarelli, amico del saggista e scrittore, viene presentato malato e silenzioso, come rinchiuso nei suoi ricordi e solo raramente colloquiale.
Riporto a conclusione di questa breve e non esaustiva biografia del grande scrittore tarquinate una nota proprio di Flaiano del 16 Giugno 1959:
“Ieri, 15 Giugno , Cardarelli è morto al Policlinico, dov’era da un mese. Gran cultore di Leopardi, è morto anche lui (quasi) come Leopardi, a causa di una indigestione di gelati, che poi è degenerata in una broncopolmonite. Da un mese non parlava più: solo ogni tanto, quando qualcuno entrava nella sua stanza diceva piano: “Noiosi”.
*L’Adolescente, Poesie 1936-1942