“Indossa i guanti e un casco in pelle. È inaccesibile: la sua è una bellezza fredda e conturbante dietro la quale si intuisce un essere formidabile – questa donna è libera!”
1931. In Germania esce Ragazze in uniforme (Mädchen in Uniform) tratto da una sceneggiatura di Christa Winsloe, romanziera, drammaturga e scultrice ungherese. Dal film la stessa autrice trae successivamente il romanzo La ragazza Manuela. La storia – una nuova studentessa che arriva in un collegio di sole donne e finisce per innamorarsi di una giovane insegnante, facendo scoppiare uno scandalo – spesso è stata vista solo come una critica all’autoritarismo dello stato prussiano, ignorandone deliberatamente i contenuti lesbici. Ma ciò che importa è che, a partire dall’uscita di quel film, la cultura lesbica che fino ad allora, quando non completamente negata, era stata considerata una forma di sottocultura all’interno della più vasta “cultura delle donne”, viene finalmente alla luce.
E se a Monaco, in quegli stessi anni, sta nascendo il nazismo, a Berlino, già a partire dagli anni Venti, la cultura lesbica fiorisce e coinvolge ogni forma d’arte: letteratura, pittura, musica. Nascono persino mensili e settimanali lesbici come Die Freundin, che durerà fino all’avvento del nazismo e, in questo contesto, anche il cinema e il teatro danno un grande supporto, consacrando icone come Greta Garbo e Marlene Dietrich.
Berlino, Londra e Parigi sono luoghi privilegiati per il fiorire di questa cultura tutta “al femminile” all’interno del vivace clima intellettuale ed artistico europeo tra le due guerre. Sono queste le città in cui le artiste creano le prime comunità, spesso all’interno di alberghi di lusso, che diventano luoghi d’incontro e di scambio. Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Gertrude Stein, Erika Mann, la già citata Christa Winsloe sono solo alcune di loro. Sono donne che spiccano per talento e avvenenza, per fascino ed intraprendenza.
E se tra il Ritz di Parigi e il Grand Hotel di Montecarlo si muove elegantemente la pittrice polacca Tamara de Lempicka , “la dea dagli occhi d’acciaio dell’epoca dell’automobile”, come la definì il New York Times, tra l’Adlon di Berlino e il Suvretta House, a pochi passi da St. Moritz, è facile incontrare una giovane scrittrice svizzera, Annemarie Schwarzenbach, “un ragazzo ardito e ben fatto”, come la definì l’amico e “compagno di sventura” Klaus Mann.
Figlia di facoltosi di Varsavia – il suo cognome era Gorska – dopo aver sposato, ancora adolescente, l’avvocato di San Pietroburgo Tadeusz Lempicki, nel 1923 la “bella polacca” approda a Parigi, decisa ad affermarsi come artista e a vivere nell’agiatezza. Nel 1929 dipinge l’ Autoritratto (Tamara sulla Bugatti Verde) commissionato dalla direttrice del Die Dame, un’importante rivista tedesca di moda. Il dipinto non è solo una dichiarazione dell’ambiguità della pittrice ma una rappresentazione dell’emancipazione femminile. Non è più la donna l’oggetto che viene dominato ma è la donna che domina l’oggetto e diventa tutt’uno con esso. L’essere umano appare come una mescolanza di generi, di maschile e femminile, di carne e acciaio.
Assecondare o condurre l’automobile così come si asseconda o si conduce il gioco sottile della seduzione, quello che ha luogo con i suoi amanti, uomini o donne che siano, a cui talvolta s’impone tal’altra si sottomette (come nel caso de La bella Rafaela, ritratta per bene cinque volte) in cui ciò che conta è, per usare le parole di Tamara, “adottare lo stile dell’automobile mentre lei adotta il mio.”
Ancora oggi quel dipinto è simbolo della “donna al volante” della sua esistenza, che domina la propria automobile così come domina se stessa, gli altri, la propria vita, che si autoafferma ed è libera di seguire le proprie inclinazioni così come la sua strada; libera di essere, in poche parole, autonoma ed indipendente. Tamara, che in realtà non ebbe mai una Bugatti verde ma una Renault gialla, venne identificata, da quel momento in poi, con quell’immagine, icona stessa della donna moderna, elegante e distaccata, irraggiungibile, un’immagine tra le più famose e utlizzate, ora come allora, come manifesto e simbolo, come ad esempio per la copertina in un libro, dedicato ad arte e automobili, nel 1973.
“Angelo inconsolabile”, “angelo devastato”, donna “imperdonabile” come la definirono alcuni contemporanei, paragonata all’Angelo “nero” delle Elegie Duinesi di Rilke; “l’enfant”, “ the child”, “il piccolo compagno” come la chiamava Erika Mann o la “bugiarda, morfinomane, scrittrice ossessionata della parole e dall’assoluto”, come la definisce Melania G. Mazzucco, Annemarie Schwarzenbach è stata sottratta dall’oblio proprio da quest’ultima che in Lei così amata ha narrato la sua breve ma intensa vicenda umana ed artistica, oltre che a tradurre per l’edizione italiana la raccolta di racconti La gabbia dei falconi.
Anche se “Berlino pullulava di donne in calzoni – disponibili e disinibite” e “da attrici, scrittrici, giornaliste emancipate (..), l’apprendista della vita si aspettava una rivelazione o la definitiva verità sul significato dell’esistenza”, non è in quegli ambienti né tra quelle donne che Annemarie trova se stessa. E poiché “scrivere le era indispensabile, vitale: una conferma della sua esistenza” , va a cercarla altrove.
“Annemarie vaga con la sua Mercedes in cerca della sua dannazione o salvezza” prima, poi, nel 1939, nell’epoca d’oro dei viaggi, a bordo di una piccola Ford V8, attraversa l’Iran e l’Afghanistan, arriva fino in India con Ella Maillart, fotografa e scrittrice. Ma da sola si spinge ovunque, perfino in Africa, in Congo, ed è archeologa, fotografa, giornalista, corrispondente. Non è più “l’amica dei Mann (…), la piccola svizzera” uscendo da quel terzetto distruttivo di cui faceva parte insieme all’amante Erika Mann, “l’appoggio e l’amorevole garante – un simbolo” come Annemarie stessa la definì, anch’ella scrittrice, saggista, attrice (recitò in Ragazze in uniforme e fu un’altra donna al volante, definita “principe della Ford” dopo aver vinto un rally attraverso l’Europa) e da suo fratello Klaus, anch’egli scrittore (sempre sull’orlo del precipizio, schiacciato dalle droghe – morirà di overdose – e dal paragone con Il Mago, il padre, premio Nobel, Thomas Mann), col quale Annemarie condivise l’intima amicizia con “l’amica” morfina per quasi dieci anni.
Annemarie si lascia alle spalle tutto questo perchè “a volte per salvarsi, bisogna staccarsi. Farsi la propria vita. Mandare all’inferno coloro che ci amano, perché il loro amore manderebbe all’inferno noi.”
E se qualche altro viaggiatore, in quegli stessi anni, viaggiava alla ricerca dell’impossibile, Annemarie “viaggiava per trovare una terra promessa che appartenesse soltanto a lei – inaccessibile a sua madre, alla sua famiglia, a Erika, al suo passato.” Faceva un viaggio per non dover essere nient’altro che se stessa.
Il destino mescola le sue carte in modo curioso e se l’enfant che aveva viaggiato in tutto il mondo, tra disagi e pericoli (visse anche la tragica esperienza dell’internamento in un ospedale psichiatrico) morì a seguito di una banale caduta in bicicletta a soli trentaquattro anni, nel 1942, proprio dopo essere tornata, dopo anni, nella sua tanto amata-odiata Bocken, la diva ebbe vita più lunga ma scelse di fare il suo ultimo viaggio, anche un po’ bizzarro, molto lontano, sul cratere del vulcano Popocatptl in Messico, dove, nel 1980, le sue ceneri furono sparse, come suo volere. Questo fu l’ultimo capriccio di una donna che amava farsi fotografare con abiti alla moda e in pose da diva; che frequentava solo persone che definiva “le migliori”; che non mancò di sostituirsi abilmente alle amanti di uomini facoltosi per avvantaggiare la sua arte, né di rifiutare le attenzioni di uomini illustri quando non ne aveva bisogno perchè già famosa. Celeberrimo il rifiuto a Gabriele D’Annunzio che la inseguì inutilmente con lettere adulanti e allusive ma che lei definì, senza mezzi termini, “un vecchio nano in uniforme”. Dal Vate accettò solo l’ospitalità al Vittoriale e un anello con un grosso topazio che tenne con sé fino alla morte, senza mai dipingere il ritratto che pure era stato il motivo dell’incontro.
Entrate nell’immaginario collettivo per la loro avvenenza e per il loro fascino androgino, la diva e l’enfant, la femme fatale e la garçonne, quali icone dell’universo lesbico e non solo, continuano ad ispirare artisti, fotografi e stilisti di oggi.
Donne fragili eppure sicure di sè. Donne al volante della propria vita, della propria arte, della propria esistenza.
Libere di essere nient’altro che se stesse.