Spesso si associa all’attività di Francesco De Sanctis tutta una serie di contributi dati alla cultura napoletana e più in generale a quella meridionale. Ma cosa intendiamo di preciso con “contributo”? Non siamo infatti sul consueto piano corrispondente a quello della “creazione”, bensì molto più appropriato sarebbe parlare di “critica” dell’interpretazione e della riflessione filosofico-letteraria, con riferimento sia ai testi appartenenti al patrimonio dei classici, che a quelli moderni e contemporanei.
Benché molte delle opere di De Sanctis siano successive al 1860 e si collochino nella seconda metà del XIX secolo, la sua attività sembra tutta protratta verso l’analisi delle attività risorgimentali, come orientate verso il futuro politico italiano. La sua è in sostanza una critica della cultura del tempo, con l’aggiunta non inedita della funzione “ideologica” della letteratura, come per porla al servizio di un vivido sentimento sociale legato alle vicende che in quegli anni sconvolgevano la scena nazionale nostrana.
Nato a Morra Irpina il 28 marzo del 1817 da famiglia di proprietari terrieri, studiò a Napoli dal 1826 alla scuola privata dello zio sacerdote Carlo Morra, poi presso quella dell’abate Lorenzo Fazzini e infine a quella del marchese Basilio Puoti, celebre per i suoi interventi in merito alla fondazione della Nuova Accademia della Crusca.
Dopo gli studi di diritto, si interessò alla letteratura per intraprendere la via dell’insegnamento: già nel 1839 ottenne un incarico presso la scuola militare di San Giovanni a Carbonara e poi nel ’41 presso il collegio militare della Nunziatella; contemporaneamente aprì una propria scuola privata, in cui raccolse e formò giovani di grande talento, partendo da semplice supporto al maestro Puoti.
Partendo da un’ideologia neoguelfa e giobertiana che prediligeva posizioni liberali, si vide profondamente ferito da eventi tragici come la morte del prediletto Luigi La Vista, caduto durante l’insurrezione del 15 marzo del ’48: fu così che De Sanctis abbandonò il cattolicesimo di stampo patriottico in favore di un idealismo laico e democratico.
L’anno successivo dovette ritirarsi in Calabria, a Cosenza, dove oltre all’attività di precettore scrisse i primi saggi critici su Schiller e Leopardi. Essendosi accostato a gruppi mazziniani e democratici, venne arrestato il 3 dicembre 1850 e condotto a Castel dell’Ovo (a Napoli), dove rimase fino al ’53 scrivendo il dramma Torquato Tasso e dedicandosi allo studio di Hegel su tutti.
Condannato all’esilio in America, riuscì a sbarcare a Malta e a ritornare a Torino, dove rimase ad insegnare per breve tempo prima di trasferirsi nuovamente a Zurigo per insegnare al Politecnico.
Rimase in contatto con la scena politica italiana, seguendola dagli spalti delle Alpi e appoggiando l’ideale unitario di Cavour sotto i Savoia.
Una volta tornato in Italia, e precisamente a Napoli, fu prima eletto governatore di Avellino, poi deputato, e poi nominato ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo del Regno d’Italia, ottenendo la stessa nomina anche nel ’62.
Dopo la morte di Cavour, però, fu deluso dalle direttive penalizzanti per la democrazia ed il Mezzogiorno d’Italia, accostandosi a posizioni “di centro-sinistra” e fondando insieme ad altre personalità l’Associazione Unitaria Costituzionale, presieduta da Luigi Settembrini e dirigendone il quotidiano “L’Italia”.
Fu deputato e vicepresidente della Camera più volte in diverse legislature, risiedette a Firenze, allora capitale del Regno, e scrisse la Storia della letteratura italiana. Nel 1863 si sposò con Maria Teresa Testa dei baroni di Arenaprima e fu nominato professore ordinario di letteratura comparata all’università di Napoli, la famigerata seconda scuola napoletana.
Fu nel ’76 che si ributtò in politica, ma fu costretto a dimettersi per motivi di salute, deluso per giunta dalla Sinistra italiana del tempo.
Morì a Napoli il 29 dicembre 1883.