Non ho amato da bambina il libro Cuore, e ho continuato a non amarlo da adulta; il motivo della mia idiosincrasia non risiede nel buonismo che ne pervade le pagine, il mio è un astio rivolto alla piattezza, per me indigesta, dei personaggi. Sono una trentenne e tollero benissimo drammi, orfani, tragedie, e chi più ne ha più ne metta, sono d’altronde cresciuta tra Incompreso, Piccole Donne, Pattini d’argento e simili ma, perché la mia attenzione resti desta, ho necessità che i protagonisti di una storia abbiano sfumature, sfaccettature, in una sola parola verosimiglianza. Con queste premesse è chiaro che per me, e per chi come me si è sentito il latte alle ginocchia mentre lo leggeva, apprezzare una trasposizione del famoso libro di De Amicis è pressoché impossibile, ma se invece che di una rielaborazione si trattasse di prendere in prestito solo l’aula scolastica, se si giocasse col titolo, se si creassero personaggi nuovi dotati di tridimensionalità cosa accadrebbe?
Silvia, supplente, è al suo primo incarico annuale e in sorte le è toccata una difficile scuola elementare della periferia di Torino, una quarta elementare che pare aver attratto a sé i peggiori alunni in circolazione che, nonostante la giovane età, sono in grado di mettere in difficoltà la maestra che ha tre volte i loro anni. Silvia è infatti quasi una trentenne, con una vita amorosa e lavorativa precarie, eppure dei semplici ragazzini sembrano volerle strappare via tutto l’entusiasmo e la voglia di insegnare e condividere. Silvia, in seguito ad un incidente che coinvolge uno dei suoi alunni, decide di ripercorrere il difficile anno scolastico raccogliendo sia alcuni scritti dei suoi alunni che il proprio moderno scambio epistolare -via mail- con l’amica Mirella. Esiste in ciò che è accaduto una sua responsabilità? Cosa avrebbe potuto fare perché non accadesse? Silvia infatti non è rimasta immobile e sconfitta a subire una difficile situazione ma ha tentato, anche attraverso il confronto con la più esperta Mirella -insegnante vicina alla pensione-, e le azioni previste dalla legge e dal buon senso, di intervenire per evitare quello che in seguito si è mostrato come inevitabile. Nelle pagine di quel materiale vengono alla luce le diverse realtà di bambini iper-impegnati o abbandonati a se stessi, cresciuti troppo in fretta come pappagalli ripetono volgarità delle quali forse nemmeno comprendono il senso, alla mercé di chiunque dedichi loro la più piccola attenzione. I bambini sono tabulae rasae e quelli della classe di Silvia paiono essere stati lasciati da soli a imprimere su di sé i segni necessari alla loro crescita, anche se Silvia tenta con forza di lasciare il suo. È forse inutile? A fare da cornice l’ambiente scolastico privo di fondi e saturo di una competizione male indirizzata. Bellum omnnium contra omnes, direbbe Mirella: suona la campanella e si scende in trincea.
“Non c’è cuore” , di Antonella Caprio e Franco Caprio con una postfazione di Don Antonio Mazzi, non ha la presunzione di voler essere un modello o un monito, non vuole stigmatizzare o rappresentare con assolutezza una realtà che seppure piuttosto diffusa non è unica, vuole però raccontare. Racconta con le sfumature, le sfaccettature e la verosimiglianza necessaria una società nella quale il ruolo della scuola e degli educatori è in ribasso, dove non ci si cura di fornire il materiale, in senso non certo solo fisico, a chi deve curarsi di preparare alla vita quelli che saranno gli adulti di domani. Il discorso non resta però circoscritto alla scuola, la famiglia e le istituzioni sembrano infatti non svolgere, ognuno nel proprio ambito, quella funzione essenziale che storicamente era stata loro assegnata.
Bambini e anziani condividono la stessa condizione: sono inutili e come tale parcheggiati. E chi investirebbe in un parcheggio gratuito? Le nuove generazioni, che crescono troppo in fretta senza tuttavia possedere gli strumenti che solo una certa maturità è in grado di fornire loro, non sono più trattate come risorse sulle quali investire.
Educare etimologicamente sta più o meno per portare oltre, condurre fuori, nel senso di accompagnare l’individuo oltre i suoi difetti e le sue incapacità, ma a quanto pare più che i bambini gli incapaci siamo noi.