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Una vicina succulenta

Quando la vidi la prima volta ero chino, un ginocchio sul marciapiede, mi stavo allacciando una scarpa, nella tipica posa di chi fa una proposta di matrimonio. Capelli neri, occhi verdi, un vestito anche esso verde del colore d’un delizioso acino d’uva succulento, sebbene avesse un corpo ancora da adolescente con poche ma giuste forme sembrava davvero un frutto zuccherino. Alzai la testa ed al vederla mi colse un capogiro, possibile che l’amassi già? Mi sorrise e persi l’equilibrio, finendo gambe all’aria, non senza sbattere con forza l’osso sacro: non saprei dire se mi ferì di più il colpo all’asfalto o quello all’orgoglio. Sorrise, ed allora pensai che non era andata così male. S’era trasferita da poco nel condominio seppi poi, e senza quel buffo inizio magari non avrei avuto occasione di parlarle per mesi. Mi aiutò ad alzarmi e notai che aveva con se un libro di Marquez, dico Gabriel eh, insomma in pochi secondi capii che non era solo bella da morire, anche appassionata del mio autore preferito, e gentile, visto che mi diede aiuto ridacchiando non troppo davanti a me, maschio ferito nella virilità che accettava il suo gesto con la mano destra, mentre con la sinistra mi massaggiavo il coccige.

Ci prendemmo in simpatia e mi offersi subito di aiutarla a trasportare un po’ di pacchi nel suo appartamento, certo non immaginavo quante scarpe, quadri, mobili ecc ecc avesse ancora da portare nella sua nuova casa, ma se solo mi parlava mi sentivo ripagato d’ogni sforzo. Passavano i giorni, ed avendola vista incupirsi per i preventivi dell’imbianchino, decisi di sfruttare l’occasione: passai i pomeriggi dopo il lavoro a tingere le sue pareti dei colori più vivaci, le piaceva così, cosa che la rendeva ai miei occhi, uomo dalla casa rigorosamente bianchissima, ancora più affascinante. Rossa la cucina come l’abito che le vidi indossare la seconda volta, lilla il salotto, azzurra la camera da letto… Mentre col pennello stendevo proprio quel color cielo immaginavo le splendide notti che avrei trascorso con lei in quella stanza, in una nuvola di piacere, tirandole per scherzo i capelli corvini, in un combattimento amoroso, tra pizzichi, giochi e baci. A dire il vero spesso poverina rincasava molto tardi, ed io stavo perlopiù da solo, il lavoro la tratteneva fuori casa per molte ore, ed era talmente provata al rientro che non ebbi mai il coraggio di proporle una cena fuori, ci sarebbe stato il tempo in futuro ne ero certo. Finito il compito mi abbracciò stretto, così stretto che mi parve di sentirle le braccia stringermi anche il cuore tanto che dalle labbra, come da un tubetto di dentifricio schiacciato con le dita, m’uscì involontario un “ti amo”.

Lei incredula mi guardò con quegli occhi di smeraldo, muta, ed io furbo e fulmineo le dissi “ti chiamo”. Mi parve sollevata, e la cosa non mi fece molto piacere, poi però dovetti ammettere a me stesso che in fondo ci conoscevamo solo da un mesetto, dovevo esserle sembrato pazzo, mi accomiatai con una tale velocità che al confronto uno scarafaggio colto da improvvisa luce non è altro che una statua. Le comprai alcuni ninnoli, un tappeto, una pianta per inaugurare la sua nuova abitazione, poi mi parve misera cosa e rimediai portandole uno splendido robot da cucina, che però poi mi parve impersonale e quindi le comprai un vestito, che poi mi parve troppo intimo, e quindi, ultimo, le comprai un bel bracciale, mi avrebbe portato sempre al polso, ero molto fiero di me. Mi ringraziò ogni volta per ogni singolo regalo, forse solo al tappeto fu un po’ gelida, ma nel complesso ero certo d’averla colpita. Stufo di vederla alla fermata del tram ogni mattina, allungando il mio percorso di poche decine di chilometri, presi l’abitudine di accompagnarla sempre al lavoro ma di riprenderla la sera solo raramente, lei non voleva approfittare di me mi disse: che persona eccezionale! Una sera di dicembre, l’avevo conosciuta appena a maggio, preso dall’atmosfera natalizia che si respirava, presi coraggio: mi vestì con cura, trassi un respiro profondo e percorsi i due piani che separavano la mia bocca dalla sua, in uno stato di tale emozione che non so neanche spiegarlo, con i suoi dolci preferiti in una mano ed il mio cuore nell’altra.

Quella volta non l’avvertii del mio arrivo, volevo farle una sorpresa, bussai. Mi aprì un uomo, occhi scuri ed una tartaruga sulla pancia così definita che avrei giurato avesse mangiato davvero un carapace, un asciugamano troppo piccolo intorno alla vita tanto da doverlo tenere, i capelli bagnati che gocciolavano sul parquet, ed una mano bagnata, no dico bagnata, sulla parete dipinta da me. Mi guardò come fossi un micio puzzolente, voglioso di cacciarmi con un calcio, l’avevo interrotto evidentemente. Linda, quel frutto profumato che credevo quasi mio, arrivò dopo un attimo e mi sorrise presentandomi il suo capo, l’uomo nudo, che invece che porgermi la mano per presentarsi la usò per afferrare i dolci che avevo con me alludendo a dello zabaione o non so che, ridacchiando come una cornacchia e sbattendomi poi la porta sul muso. Mi sentivo distrutto, disperato, devastato. Passai lunghi giorni a chiedermi cosa avevo sbagliato. Poi d’un tratto capii. Lei non era davvero nulla di che, non era nemmeno degna di me, cosa avevo da esser triste, così piatta, così sciatta, così acerba, con i seni così piccoli, così povera da non potersi permettere un auto, così frivola (secondo me neanche lo ha letto sul serio Marquez), così volgare da fare di casa sua un pasticciaccio, così, così, così…

Morale: prima di corteggiare una vicina, riempirla di regali, tinteggiarle la casa, assicuratevi che abbia una vera passione per il lavoro e non un capo sensazionale.