Elio Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio, Trebellio Pollione, Flavio Vopisco: sei nomi che – ne siamo quasi certi – non riporteranno nulla alla memoria dei nostri lettori. Sono i sei autori, presunti tali o immaginari – altrimenti ignoti – a cui nei codici manoscritti viene attribuita la paternità di un’opera del tutto singolare all’interno della letteratura latina: stiamo parlando dell’ Historia Augusta (“Storia degli Augusti, cioè degli imperatori), tramandata anche con il titolo Scriptores historiae Augustae.
L’opera è, di fatto, una raccolta di biografie, trenta per l’esattezza, che abbracciano un arco temporale compreso tra l’assunzione al trono di Adriano (117 a. C.) e la fine del regno di Numeriano (285 d.C.). Oltre alle vite degli imperatori ufficialmente regnanti, la silloge include anche vite, più brevi, di eredi designati alla successione (non gli Augusti, bensì i Caesares), pretendenti ed usurpatori. Un lungo e non risolto dibattito critico è nato e si è sviluppato circa la datazione dell’opera, che, stando ad alcuni indizi interni – come dediche ed apostrofi agli imperatori, da Diocleziano a Costantino – dovrebbe collocarsi tra il 285 e il 337 d.C. Tuttavia la presenza di notevoli incongruenze ha indotto alcuni studiosi moderni a revocare in dubbio l’autenticità dei nomi degli autori e la loro stessa esistenza: la tesi sarebbe che, dietro sei nomi fittizi, si celi la mano di un unico, anonimo autore, che oltretutto avrebbe operato in un’epoca alquanto più tarda, tra i due estremi del 379 e del 423 d.C.
Su contenuti e forma dell’ Historia Augusta, ci troviamo ben distanti dalle opere che hanno fatto la storia del genere biografico. Eppure tra i modelli spicca Svetonio, il più illustre rappresentante del genere. Svetoniana è, con tutta probabilità, la struttura delle vite: il biografo segue un ordine puramente cronologico fino alla proclamazione imperiale, passando poi all’organizzazione del materiale per species o per categorie, per ritornare quindi al criterio cronologico nell’imminenza della morte e al resoconto finale delle esequie e degli onori postumi. Ma, al di là di un’imitazione piuttosto coatta del modello svetoniano, ciò che colpisce dell’opera è la tendenza quasi maniacale a privilegiare la notizia curiosa, il dettaglio eccentrico o l’aneddoto scandaloso. Manca una caratterizzazione psicologica verosimile della figura, che si scompone invece in frammenti non legati tra di loro, tra i quali – come detto – un posto di assoluta preminenza è occupato da lunghe e particolareggiate descrizioni di vizi, oscenità e dissolutezze (come accade soprattutto nella vita di Elagabalo, attribuita a Elio Lampridio). Molte volte, tra l’altro, appare evidente come lo stravagante campionario sia frutto di una sbrigliata fantasia.
Dal punto di vista ideologico, l’opera non scende a compromessi e risulta palesemente filosenatoria. Il giudizio pronunciato dai biografi sui vari imperatori sembra rispondere quasi unicamente a questo criterio: optimi sono gli imperatori che hanno governato in accordo con il Senato, pessimi o comunque criticabili tutti gli altri.
Giudicata scadente sul piano artistico, semplice nello stile e quasi trasandata nell’esposizione, l’Historia Augusta ha scatenato una vera e propria “corsa” alla scoperta di questo enigma letterario, che in talune autorevoli voci ha portato alla conclusione che l’opera si tratti di un divertissement erudito, ossia una sorta di parodia delle forme storiografiche tradizionali messa insieme da un grammatico o un retore, certamente ricco d’inventiva e animato dal gusto dell’evasione e dell’intrattenimento.